Le istituzioni più forti degli uomini

Non è escluso che dal grande chiasso che regna ai vertici del governo nasca, taciturno ma testardo,
un attaccamento più intenso degli italiani alle istituzioni e alla carta costituzionale su cui poggiano
le istituzioni. Il politico che se ne sente ingabbiato e vuole liberarsene continuerà magari a esser
applaudito, per la spavalderia che esibisce e per il ruolo di vittima che recita. Ma in parallelo con
questo consenso, fatto di adorazione e indolenza, è probabile che si rafforzi proprio la pianta che il
leader vorrebbe disseccare: la pianta, rara in Italia, che quando attecchisce dà come frutto il senso
delle leggi e dello Stato.
C’è qualcosa nel chiasso della presente legislatura che ricorda i dipinti
dell’espressionismo tedesco, durante la Repubblica di Weimar: volti stravolti da eccitazioni,
maschere che sogghignano, città sghembe che urlano senza più ordine. Kurt Tucholsky scrisse che il
precipizio «spettrale» cominciava con l’uomo che mette l’Io in primo piano (politico o scrittore,
giornalista o imprenditore).

Hitler era un uomo così, e l’Io che accampava era la sua persona e qualcosa di più nascosto, torbido:
l’Io della nazione, del Popolo illimitatamente sovrano. «L’Io di per sé non esiste», scrive Tucholsky
fin dal 1931: «Quest’uomo non esiste; in realtà egli è solo il chiasso, che produce».
Il frastuono coesiste da tempo con il rispetto italiano delle istituzioni, a ben vedere. La seduzione e
il carisma di Berlusconi hanno alcune qualità inossidabili, ma non meno incorruttibili sono stati,
lungo gli anni, l’ammirativa affezione per i garanti della Costituzione e l’adesione dei cittadini
all’equilibrio fra i poteri. Sono stati molto popolari Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi. Lo
è Giorgio Napolitano. Anche l’adesione agli organismi di garanzia non scema, come dimostrano i
sondaggi favorevoli al Csm e alla Consulta. La lezione sulla Costituzione che Scalfaro tenne nel 2008 all’Auditorium di Roma riscosse un successo vasto.

È una conferenza che andrebbe riascoltata: la maniera in cui l’ex Presidente racconta la scrittura intellettualmente elettrizzante della
Carta, le visioni profetiche che essa contiene, fa rivivere un testo che non è affatto vecchio e che in
pieno frastuono non andrebbe modificato. Ricordo in particolare il passaggio sui diritti della
persona: per la prima volta in Italia, dice Scalfaro, lo Stato non li concede né si limita a garantirli,
ma li riconosce. I diritti precedono i governi e le Carte, e davanti a essi gli uni e le altre «si
inchinano». Ricordo anche quel che disse a proposito del referendum del 2006 sulla riforma
costituzionale del governo Berlusconi. Gli italiani dissero no non solo alla devoluzione ma anche,
con forte maggioranza (più del 60 per cento), a un Premier dotato di poteri esorbitanti, compreso
quello che scioglie le Camere e che la Carta affida al Capo dello Stato.
Istituzioni e carte costituzionali hanno questo, di specialmente prezioso: durano più degli uomini,
dei governi, delle campagne elettorali, dei sondaggi. Sono lì come una tavola fatta di pietra,
conferiscono stabilità a quel che nell’alternarsi democratico delle maggioranze necessariamente è votato all’instabilità.

È significativo che non solo le nazioni uscite dalla dittatura si siano messe
come prima cosa a riscrivere le Carte, ma che anche l’edificio europeo abbia anteposto la
permanenza delle istituzioni all’impermanenza degli uomini, dopo le guerre del ’900. Jean Monnet,
che dell’Europa fu uno degli artefici, venerava in particolar modo le istituzioni. Citando il filosofo
svizzero Henri Frédéric Amiel scrive nelle Memorie: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che
sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano
l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse
regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si
trasformi gradualmente»
(Cittadino d’Europa, Guida 2007, i corsivi sono miei).
Questo vuol dire che grazie alle istituzioni non cambia la natura dell’uomo (missione impossibile e,
se tentata, deleteria) ma il suo comportamento: il progresso di cui è capace l’uomo vive e si
trasmette solo attraverso le istituzioni che egli sa darsi.
Per alcuni, le istituzioni e le costituzioni
hanno una forza così potente - la forza del Decalogo - da sostituire identità controverse come la
nazione o l’identità etnica. Non sono Habermas e le sinistre ad aver inventato il concetto, non a caso
tedesco, di patriottismo costituzionale. Lo coniò negli Anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger:
per l’allievo di Hannah Arendt, il patriottismo costituzionale era «una sorta di amicizia per lo Stato»
(Staatsfreundschaft): amicizia che Weimar non aveva posseduto a sufficienza.

L’adesione italiana alle istituzioni e alla Costituzione ha radici più forti che ai tempi di Weimar. Ha
una resilienza a quell’epoca sconosciuta. Uomini come Scalfaro e Ciampi, nella Germania di allora,
non avrebbero avuto la popolarità che hanno oggi in Italia. Per Sternberger, il patriottismo
costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo
etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le
nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate. L’altro concetto formulato da Sternberger è quello di
democrazia agguerrita. Alle violazioni delle leggi e agli abusi d’un singolo potere, la democrazia
deve rispondere anche con la forza.
In guerra si difende con le armi; in pace con le istituzioni, le
leggi, le corti, perché queste si decompongono meno rapidamente e facilmente di un uomo o una
maggioranza.
Le istituzioni nascono quando l’uomo scopre il male, fuori e dentro di sé. Quando il politico, spinto
esclusivamente da volontà di potenza, mostra di non tollerare confini e non riconosce, sopra di sé o
al proprio fianco, poteri che frenino i suoi abusi. Quando smette, dice Ciampi, di essere compos sui:
pienamente padrone di sé (intervista al Corriere della Sera, 11-12-09). Limiti e contrappesi sono
necessari anche quando l’espansione della volontà di potenza s’incarna nel popolo e nelle sue
maggioranze: il popolo non ha innocenza e anch’esso può divenire despota, insofferente ai limiti.
La democrazia che gli attribuisce sovranità assoluta non è già più democrazia. Anche questa è una
lezione del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo sono state escrescenze della democrazia, e
tutte son partite dall’idea che il popolo-sovrano sia compos sui per natura. L’idea che l’uomo sia
naturalmente buono è di Rousseau, e tende a squalificare sia il controllo esterno delle istituzioni sia
il controllo interiore della coscienza, scriveva nel 1924 un altro filosofo conservatore, Irving
Babbitt: «Con la scomparsa di questo controllo, la volontà popolare diventa solo un altro nome
dell’impulso popolare
» (Babbitt, Democracy and Leadership, 1924).
Quel che avvince gli italiani, negli ultimi capi di Stato, è l’attitudine o comunque l’aspirazione a
fissare uno standard, a farsi custodi non notarili ma perfezionisti della Costituzione. Nel dizionario
Battaglia, lo standard è «la norma riconosciuta o il criterio o l’insieme di norme o di criteri a cui
devono fare riferimento o a cui si devono uniformare attività, servizi, comportamenti, metodi
operativi o di lavorazione, e in base ai quali sono valutati». Quando vengono meno gli standard i
popoli tendono a guardare non verso l’alto ma verso il basso, e il chiasso che ne esce si fa spettrale
come nelle parole di Tucholsky.


Barbara Spinelli    La Stampa  13 dicembre 2009