Il crocifisso non è
una clava
Prima la polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in
Italia, poi (una settimana
fa) il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di
minareti. Le due
tematiche sono solo apparentemente affini.
In un caso si tratta infatti della presenza di un simbolo religioso in aule
pubbliche non destinate al
culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui
esercitare pubblicamente e
comunitariamente il diritto alla libertà di culto. Resta il fatto che si fa
sempre più urgente una seria
riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato
paese di credenti
appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno Stato
democratico deve offrire per
salvaguardare la libertà di culto.
La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a
percezioni distorte della realtà - come dimostra anche
il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati -
ma proprio per questo
non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e
ricondotta alla razionalità,
se si vuole una umanizzazione della società. Del resto è proprio
l’essere «concittadini», il
conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il
lavoro, la salute, la
salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli,
che porta a una diversa
comprensione dell’altro. Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i
pochissimi cantoni
svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di
Ginevra e di Basilea,
caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.
In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le
polemiche, e non è
mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di
nuovo la croce
come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale
e marcare il
territorio riducendo questo simbolo cristiano a una sorta di idolo tribale e
localistico. Così, lo
strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha
speso la vita per gli
altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta,
viene sfigurato e
stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa «realtà» che
dovrebbe essere «parola e azione»
per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne,
a portachiavi
scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di
arredo... Tutto questo senza
che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo,
salvo poi trovare i cantori
della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a
lanciare guerre di
religione. Ma quando i cristiani perdono la memoria della «parola
della croce», e assumono l’abito
del «crociato», rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi
trionfalismi, di ridurre il Vangelo
a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non
servitori della fraternità e della
convivenza nella giustizia e nella pace.
Va riconosciuto che la Chiesa - dai vescovi svizzeri alla
Conferenza episcopale italiana,
all’Osservatore Romano - ha colto e denunciato quest’uso strumentale della
religione da parte di chi
nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della
collettività, ma resta
vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei
valori del dialogo,
dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la
propria identità senza gli altri, si
finisce per usarla e ostentarla contro gli altri. Se la croce è
brandita come una spada, è Gesù a essere
bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il
Vangelo e il suo
annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di
uomini e donne che con la
loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: «Chi vuol
essere mio discepolo,
abbracci la croce e mi segua» e dal suo annuncio: «Vi riconosceranno come
miei discepoli se avrete
amore gli uni per gli altri». Quando i cristiani si mostrano capaci di
solidarietà con i loro fratelli e
sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo
saldi nel rendere
testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere
riconosciuti discepoli del loro
Signore mite e umile di cuore.
Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la
visibilità più eloquente
non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma
il comportamento
quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del
proprio credo, sia
esso religioso o laico.
Enzo Bianchi La Stampa 7 dicembre 2009