Razzisti cioè cattivi

È proprio vero che siamo un paese di poeti santi e navigatori. Solo in un paese di geni assoluti
poteva essere concepita l'idea, scaturita dalla fervida immaginazione di un paese del bresciano, di
lanciare di qui a Natale una campagna di pulizia etnica e chiamarla «White Christmas». La trovo
un'idea entusiasmante.
In primo luogo, perché spazza via tutte le menzogne mielate di quando ci
raccontavano che a Natale siamo tutti più buoni: prendere spunto dal Natale per diventare più
cattivi, e farlo in nome delle nostre radici cristiane mi pare un'operazione liberatoria di verità
assolutamente ammirevole. Altro che cultura laica.

Qualche anno fa, quando il mio quartiere scese in piazza per impedire il trasferimento in zona di
qualche famiglia rom, una compagna disse: «Non è razzismo, è cattiveria». Scrissi allora, e mi
ripeto: non distinguerei fra le due cose (il razzismo è cattiveria), ma trovo giusta questa parola,
«cattiveria», così elementare da essere caduta in disuso, perché qui è proprio l'elementarmente
umano che è in gioco.

D'altra parte, un esimio leghista ministro della repubblica aveva già proclamato che bisognava
essere cattivi con gli esseri umani non autorizzati. Disciplinatamente, fior di istituzioni
democratiche eseguono: sbattono fuori dalle baracche i rom a via Rubattino a Milano e al Casilino a
Roma e i marocchini braccianti in Campania, incitano i probi cittadini dei villaggi lombardi a
denunciare i vicini senza documenti, premiano con civica medaglia intitolata a Sant'Ambrogio gli
sgherri addetti ai rastrellamenti dei senza diritti. Fini dice che sono stronzi: no, non sono solo
stronzi, sono malvagi.

Su un piano più leggero, trovo altrettanto geniale proclamare che l'operazione si fa in nome
dell'incontaminata cultura lombarda e bresciana - e chiamarla con un nome inglese, per di più
orecchiato da una canzone e un film americano. Non si potrebbe trovare un modo migliore per
prendere in giro tutta la mitologia lombarda delle radici e della purezza culturale. Non è solo una
bella presa in giro di quelli che mettono nomi lumbard sui cartelli all'ingresso dei paesi. Ma è anche
un modo per ricordarci che non esiste cultura più paesana, più subalterna e più provinciale di quella
che finge un cosmopolitismo d'accatto.

E infine, la trovata dell'inglese è una spietata denuncia dell'ipocrisia razzista. Dire «bianco Natale»
significava mettere troppo in evidenza il colore della pelle, perciò lo diciamo con una strizzata
d'occhio - dire le cose in inglese, non solo in questo caso ma più in generale ormai, significa dirle
ma non dirle, è la nuova forma della semantica dell'eufemismo. E poi, «Christmas» invece di
Natale: e hanno ragione, il nostro tradizionale Natale è sempre più sovrastato dall'americano
Christmas, lasciamo perdere il misticismo e corriamo a fare shopping.
Aveva proprio ragione la mia amica appalachiana che diceva, «noi poveri di montagna non
sognavamo un bianco Natale. Se nevicava, era più che altro un incubo». Io non so che Natale
sognino i senza documenti del bresciano, dopo questo bell'esempio di cristianesimo. La cosa che
immagino è che, cacciati dal villaggio, gli stranieri sbattuti fuori di casa andranno a dormire in una
stalla e faranno nascere i loro clandestini bambini in qualche mangiatoia.

Alessandro Portelli       il manifesto 24 novembre 2009