Küng: «Capire per
credere»
La mia spiritualità ha sempre avuto a che fare più con la razionalità che
con la sensibilità. Non ho
mai voluto semplicemente "credere", ma anche capire. Come teologo mi
sono sempre ritenuto
anche filosofo, ho studiato filosofia e l'ho praticata. L'avversione contro
questa materia, osservabile
di continuo da Martin Lutero in poi, non mi appartiene. D'altra parte non mi è
mai stato chiaro
perché i filosofi del XX e XXI secolo non si sono più voluti porre la questione
della "metafisica",
consegnando ai teologi l'amministrazione di questa grande eredità della
filosofia occidentale.
Forse che con la mia teologia io riesca a porre rimedio a quella dimenticanza di
Dio sopravvenuta
nella filosofia e a quella dimenticanza della filosofia avvenuta nella teologia?
In ogni caso la mia
teologia non dovrebbe essere una scienza segreta per chi è già credente, che si
trincera nelle
questioni cruciali dietro ai misteri, come lo è stata quella creata dai teologi
nel corso di una
problematica storia dei dogmi. Piuttosto essa dovrebbe essere comprensibile,
condivisibile e
attendibile, così da avvicinare anche i non credenti all'unico grande mistero
della realtà, quello a cui
noi diamo il nome di "Dio".
Non posso e non voglio spegnere la mia ragione nelle questioni di fede.
Tutto quanto è assurdo;
oscuro, infantile, zotico, reazionario, lo sento estraneo da me, così come
quell'isteria massificata o
addirittura mondiale che si verifica nel caso di un tragico incidente a una
bella principessa, nella
morte inaspettata di una popstar avvolta dagli scandali o nella morte pubblica e
diffusa
mediaticamente di un Papa.
Ma anche una ragionevolezza assolutizzata, un razionalismo ideologico possono
essere una
superstizione, similmente al dogmatismo teologico. In ogni caso ho poca
voglia sia di discutere con
i razionalisti irrigiditi che con i dogmatici immobili. Più di una volta ho
constatato che nella
polemica entrambi si dimostrano incapaci anche solo di riportare in maniera
corretta le mie
opinioni. In quelle circostanze la loro ratio viene offuscata dalla
passio.
Naturalmente anch'io, come ogni essere umano, non sono fatto solo di ragione e
ragionevolezza,
bensì anche di sentire e volere, di indole e fantasia, di emozioni e passioni.
Mi sforzo volutamente
di conseguire una visione complessiva delle cose. Ho imparato a pensare in
maniera metodica e
chiara, quello che si chiama esprit de géometrie secondo lo spirito di Cartesio.
Nel contempo
tuttavia ho tentato di acquisire un conoscere, un sentire e un percepire che sia
completo e intuitivo,
secondo l'esprit de finesse dell'antipode di Cartesio, ovvero
l'eccellente matematico Blaise Pascal.
Al ginnasio di Lucerna noi studenti talvolta prendevamo in giro il nostro
bravissimo professore di
storia dell'arte che durante lo studio di un'opera, quando eravamo di fronte a
qualcosa di non
quantificabile, bensì di estetico, ovvero alla bellezza, diceva sfregando i
pollici con gli indici e i
medi: «Dovete sentirla, intuirla!». Ma aveva ragione. Ci sono così tanti
fenomeni specificamente
umani come l'arte, la musica, lo humor, il riso e certo il dolore, l'amore, la
fede e la speranza che
non si lasciano cogliere in maniera critico-razionale nelle loro varie
dimensioni bensì che è
possibile avvertire solamente nella loro pienezza. Anche la nuova
ricerca sul cervello è in grado con
i suoi grandi tomografi computerizzati di spiegare il funzionamento dei neuroni,
ma non di scoprire
i contenuti dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.
Già quando ero un giovane professore trovavo affascinante avere uno scambio con
i grandi
scienziati delle altre discipline. Allora non parlavo di «interdisciplinarità»,
ma la esercitavo ovunque
potessi. Naturalmente ritenevo fondamentale un atteggiamento di rispetto, non
verso i saccenti
accademici, quanto verso i veri grandi conoscitori della materia. Un rispetto di
fronte al loro
immenso sapere, ai loro risultati dotati di fondamento, alla loro diversa
metodologia e ai loro
giudizi obiettivi. Anche nella teologia ho avuto a che fare con filosofi,
giuristi, storici e medici, poi
in maniera sempre maggiore con psicologi, sociologi e politologi. Soprattutto ho
sempre voluto
prendere sul serio l'indipendenza e l'autonomia delle scienze naturali
matematico-sperimentali; mi
sono impegnato affinché non venissero poste in dubbio da nessun teologo o
religioso che si
richiamasse a un'autorità superiore (Dio, la Bibbia, la Chiesa, il Papa).
Parimenti ho sempre ritenuto importante che se si dovessero
trattare le questioni delle scienze
naturali secondo il loro metodo e stile, allora d'altro canto sarebbe doveroso
che anche le questioni
della psiche umana e della società, così come del diritto, della politica e
della ricerca storiografica, e
tanto più quelle dell'estetica, della morale e della religione, venissero
trattate secondo il loro metodo
e stile. In maniera del tutto legittima oggigiorno anche nelle scienze dello
spirito noi ci occupiamo
sempre più dell'analisi dei fenomeni, delle operazioni, dei processi e delle
strutture. Ma facendo ciò
non dobbiamo dimenticare che ci sono questioni legittime in ambito scientifico
che attengono al
senso primo e ultimo delle cose, ai valori, agli ideali, alle norme e ai
comportamenti. Esse
richiedono una risposta. Come filosofo e teologo non posso accontentarmi
della problematicità
superficiale del nostro mondo secolarizzato e ridotto solamente a razionalità e
funzionalità, bensì
debbo cercare di penetrare nella sua dimensione più profonda. Come si può
altrimenti trovare una
risposta alla domanda sul fondamento della vita?
Hans Küng Il Sole-24 Ore 15
novembre 2009