Banalizzare Dio è peggio che nasconderlo

Caro direttore, Marco Travaglio ha difeso il crocifisso esposto nelle aule della scuola pubblica, sul
Fatto, in accordo con molti non cattolici contrari all’abbandono del simbolo essenziale del
cristianesimo. Qualche giorno prima, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva emesso una
sentenza favorevole al ricorso di una cittadina, Soile Lautsi, che in nome della laicità, della
Costituzione e della Convenzione europea di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
fondamentali, aveva chiesto l’allontanamento della croce dall’aula frequentata a Abano Terme dai
propri figli, rispettivamente di 11 e 13 anni. Sono duemila anni, scrive Travaglio nell’editoriale del
5 novembre, che il simbolo cristiano fa scandalo, e non solo per chi crede nella resurrezione: perché
la croce non è lotta e conquista, ma rammenta un dolore che accomuna ed è “l’immagine vivente di
libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia”.
Perché, soprattutto,
è “immagine di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità
(“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”)”.
Sono parole forti e profonde, che ricordano argomenti usati in passato da Natalia Ginzburg, che
Travaglio cita, e anche da Miguel de Unamuno, quando il governo del Fronte Popolare in Spagna
proibì i crocifissi nelle scuole statali: “Cosa metterete nel vuoto lasciato dalla croce? La falce e il
martello? La squadra e il compasso?” chiese il filosofo, criticando marxisti e massoni. E disse che
tanti simboli, nella nostra cultura, hanno origine nel cristianesimo: a cominciare dalle campane.

Le parole profonde non sono tuttavia quelle che dominano il discorso pubblico, da quando la Corte
ha parlato. Le più usate hanno ben altro timbro: o sono leggere fino all’inconsistenza, o sono
aggressive, e del tutto sorde alla cultura –non meno legittima, nobile, rappresentativa dell’Europa–
che pervade l’analisi fatta dai giudici di Strasburgo. I più aggressivi hanno accusato la Corte di
ideologia anticristiana, di smemoratezza storica: come se non fosse la storia, e più precisamente
l’uso che in passato è stato fatto di religioni e pseudo-religioni totalitarie, a spiegare la nascita
dell’unità europea dopo la guerra, e sentenze come quella appena pronunciata sul crocifisso.
Quanto
ai leggeri, la reazione è stata di fastidio, di volontaria ignoranza dei simboli e della loro essenza.
Particolarmente significativo lo stupore di Pierluigi Bersani, nuovo segretario del Pd: “Io penso che
un'antica tradizione come il crocifisso non sia offensiva per nessuno”. Dunque lasciamo la croce
dov'è, senza farci troppe domande: non perché il simbolo sia importante ma giustamente perché,
non essendolo, non dà fastidio a nessuno.
Come tutte le sentenze, anche quella di Strasburgo va
letta attentamente, e si vedrà tutta la miseria di chi ha creduto di difendere il crocifisso
avvicinandosi a esso con furba disinvoltura. In sostanza, i due rappresentanti del governo –
Ersiliagrazia Spatafora e il suo assistente, Nicola Lettieri– sostengono che la croce non ha nulla di
sovversivo e tanto meno evoca scandalo. In fondo, i due rappresentanti danno ragione a Pedro
Almodovar: la croce è “un’iconografia pop”. Sta lì per non esser guardata, e ancor meno pensata:
“Il crocifisso è esposto nelle aule scolastiche ma non viene in alcun modo chiesto agli insegnanti o
agli allievi di fare il segno della croce, né di omaggiarlo in alcun modo (...) In realtà, non è neppure
richiesto loro di prestare alcuna attenzione al crocifisso” (paragrafo 36 della sentenza, i corsivi
sono miei). Non è che una macchia sulla parete: comunque, è un’immagine “non paragonabile
all’impatto di un comportamento attivo, quotidiano e prolungato nel tempo come l’insegnamento”
(paragrafo 37). Il silenzio del Cristo in croce non dice alcunché: non ha impatto, garantiscono gli
avvocati del governo. Leggendo la sentenza mi è tornato in mente un negoziante che vendeva
ciondolini a croce, un giorno a Londra. Un cliente si ferma, osserva e chiede: “Ma perché le croci a
destra costano una sterlina e tutte le altre 30 penny?”. Al che il negoziante, indicando quelle da una
sterlina: “Perché su queste c’è un ometto!” Ther’s a a little man on them!

Ma il paragrafo che più crudamente svela lo squallore della difesa governativa è il nr. 42: “Il
governo non sostiene che sia necessario, opportuno o auspicabile mantenere il crocifisso nelle sale
di classe, ma semplicemente sostiene che la scelta di mantenerlo o no dipende dalla politica e
risponde dunque a criteri di opportunità, e non di legalità. Nell’evoluzione storica del diritto
nazionale descritta dalla ricorrente, che il governo non contesta, occorre tuttavia capire che la
Repubblica italiana, benché laica, ha deciso liberamente di conservare il crocifisso nelle aule per
varie ragioni, fra cui la necessità di trovare un compromesso con i partiti di ispirazione cristiana che
rappresentano una parte essenziale della popolazione e il sentimento religioso di quest’ultima”. In
fin dei conti, la croce non ha nulla a vedere con la religione, ma molto, se non tutto, con la politica e
perfino i partiti.
Non senza ironia, la Corte osserva, nel paragrafo 46, che se il governo davvero
ritiene che “l’esposizione del crocifisso non richieda alcun omaggio né alcuna attenzione, c’è da
domandarsi come mai il crocifisso venga esposto. L’esposizione di tale simbolo potrebbe essere
percepita come ‘venerazione istituzionale’ di quest’ultimo”.

È leggendo la sentenza che mi sono domandata se la posizione di Travaglio fosse giusta. Se non
convenga piuttosto, alla luce delle miserie che si dicono e dell’uso politicante che viene fatto della
croce, desiderare in maniera intensa tutt’altra soluzione. Se la natura religiosa d’un simbolo
sbiadisce, sommersa da cultura e politica, allora sarebbe gran tempo, davvero, di togliere la croce
dalle classi, al più presto.
Difficile concepire un’offesa più grande a quello che la croce dice, questo
considerarla nella migliore delle ipotesi qualcosa di innocuo, nella peggiore qualcosa che esula dalla
religione.
Le parole di Natalia Ginzburg (sull’Unità del 22-3-1988) hanno peso se la conversazione
cittadina è grave e il simbolo non degenera in pretesto. Poiché è vero quello che la scrittrice
suggerisce: “Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue
sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte.
Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino.” Ma se viene
staccata dalla religione cui appartiene e diventa cultura generale o nazionale, o se diviene gadget
che non possiede neanche una scintilla perturbante, meglio salvarla trasferendola – come il Duomo
nelle Elegie Duinesi di Rilke nell’invisibile. Meglio il Dio nascosto, che la sua totale
banalizzazione.
D’altronde la Ginzburg dice una cosa tremenda, nello stesso articolo, generalmente
taciuta dai cattolici che ne tessono le lodi: “Per i veri cattolici, deve essere arduo e doloroso
muoversi nel cattolicesimo quale è oggi, muoversi in questa poltiglia schiumosa che è diventato il
cattolicesimo, dove politica e religione sono sinistramente mischiate. Deve essere arduo e doloroso,
per loro, districare da questa poltiglia l'integrità e la sincerità della propria fede”.

Penso che la descrizione non religiosa del crocifisso sia un’immensa trappola, per i laici come per i
veri cattolici. Per i laici congiunge abusivamente religione, cultura, politica. Per i cattolici e cristiani è un furto: la religione, sciolta nell’acqua della cultura, svanisce.

È vero, chi legge il Nuovo  Testamento troverà valori umanistici, ma Gesù non è un umanista. Il cristianesimo separa quel che
spetta a Cesare da quel che spetta a Dio, ma questo non lo rende un militante della cultura, molto
posteriore, della laicità. Troppo moderni sono questi termini, per una fede antichissima e – su questi
punti– labirintica. Si è parlato molto di identità italiana o europea, in questi giorni, ma la nozione di
identità è estranea al cristianesimo, che è una religione al tempo stesso mite e molto severa, aperta
al diverso e esigente. Se ci sono parole che il Cristo avversa sono proprio queste: identità, gruppo,
famiglia, nazione, etnia
. Nel Vangelo di Luca (14,26), quel che dice è sovversivo. Lo citiamo non
nella traduzione Cei ma in quella greca e latina: “Se uno viene a me e non odia suo padre, la madre,
la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita (psyche in greco), non può essere mio
discepolo”
(allo stesso modo traducono Lutero e King James).

C’è poi un altro aspetto della sentenza, secondo me trascurato. Essa viene emessa non in Italia
sull’Italia, ma in Europa in nome dell’Europa, facendo una sintesi del vissuto di tutti i suoi paesi.
L’idea di Europa è antica (un po’ come lo è l’idea di unità italiana) ma diventa progetto politico
nella seconda metà del Novecento, dopo due guerre mondiali che hanno rivelato quel che le forti
identità nazionali, eredi delle cinquecentesche identità religiose, hanno prodotto: sangue, catastrofi,
annientamento di intere comunità a cominciare da quella ebraica e Rom. Alle spalle, il nostro
continente ha guerre di religione e poi di pseudo-religioni politiche. L’Europa che non vuol perdersi
dopo secoli di megalomanie identitarie non può che essere laica, proprio perché nasce come
superamento delle identità, delle guerre di religioni e di culture
. Essa mette fine al messianesimo
comunista e all’idolatrico culto nazifascista delle radici e della stirpe, della terra e del sangue, del
Blut und Boden.

In altre parole, se oggi una sua cittadina ricorre a un tribunale europeo perché non giudica
compatibile con la propria libertà l’esposizione del crocifisso nella scuola pubblica, la Corte
europea non può che rispondere con questa sentenza, a meno di non tradire se stessa e la storia d’un
continente. Allo stesso modo l’Unione europea, quando discusse il trattato costituzionale, non poté
che rinunciare alla menzione delle radici cristiane. Non perché la Francia si opponesse, ma perché
la laicità è un patrimonio comune, e non poteva esser negata a uno solo degli Stati per il solo fatto
che la religione o Dio sono menzionati nella maggioranza delle costituzioni nazionali.

Lo Stato non è neutrale, non oppone indifferenza assoluta al fenomeno religioso e al suo crescente
diversificarsi –lo ha spiegato bene il giudice Marco Bignami in un recente convegno a Lipsia – ma
non per questo professa una fede, neppure culturale: esso è chiamato difendere sia le libertà positive
sia quelle negative del singolo – la sentenza lo ricorda – dunque l’equidistanza laica dalle più
diverse identità religiose e non religiose.
Lo Stato non usa la religione come instrumentum regni,
contrariamente a quello che hanno fatto nel dibattimento gli avvocati del governo. Così si è
pronunciata la Corte altre volte. Così ha statuito la Corte costituzionale tedesca, dando ragione a
due cittadini che avevano fatto ricorso in Baviera nel 1995: lo stato bavarese rifiutò il verdetto, ma a
partire dal 2002 consente agli insegnanti di allontanare la croce se la ritengono lesiva delle proprie
intime convinzioni. La Francia tolse la croce molto prima, nel 1886, e non potrebbe stare in Europa
se la sua tradizione venisse ignorata. La Spagna sta discutendo la sua rimozione, dopo una sentenza
che nel gennaio 2009 ha ordinato di allontanare il simbolo da una scuola a Valladolid. Meglio
sarebbe se anche l’Italia affrontasse il tema con le proprie forze: togliere simboli di tanto peso è
strappo vissuto come ingiusto, se imposto dall’esterno.

In ogni caso, la lezione di questo episodio è che abbiamo due patrie e forse anche tre: l’Italia,
l’Europa, il mondo.
E che l’Italia non è più il paese a stragrande maggioranza cattolica come ai
tempi delle circolari che imposero i crocifissi a scuola: prima tramite un decreto regio nel 1860
(quando ancora non esisteva l’unità) poi durante il fascismo tramite le circolari del 1922, 1926,
1928. A partire dal concordato dell’84, il cattolicesimo non è più religione di Stato. Sono date da
meditare. Brandire la croce davanti alle telecamere per rivendicare le radici cristiane d’Europa,
come ha fatto il Presidente del Consiglio, è qualcosa che agli italiani forse piace, ma di cui l’Europa
diffida. Ha le sue buone ragioni, e una lunga memoria, che la spinge a diffidare con tanta forza.

Barbara Spinelli     il Fatto Quotidiano  14 novembre 2009