Libertà di stampa. Una
battaglia che dimentica le donne
Non credo nella lotta per la libera informazione che prescinda da come viene
trattata l'immagine femminile
Ho cercato invano fra le decine e decine di articoli sulla libertà di stampa una
parola che riguardasse le donne. Ho cercato fra i volti e gli slogan della
manifestazione di sabato qualcosa che ricordasse la impossibilità di costruire
una stampa libera se essa esclude la presenza femminile. Ho sperato che
qualcuno protestasse contro lo scempio del corpo delle donne a cui negli ultimi
tempi i giornali e i canali televisivi hanno dedicato con dovizia di particolari
un'attenzione pruriginosa. Ho pensato - sbagliando - che fra i tanti numeri che
venivano portati a sostegno della tesi sui pericoli che oggi corre la libera
informazione ci fossero anche quelli riguardanti le donne giornaliste, la loro
collocazione, il loro ruolo.
Non ho trovato nulla di tutto questo e allora mi sono domandata: la
battaglia per la libertà di stampa, la lotta politica perché essa esista
effettivamente, e non solo all'interno di una pur legittima campagna
antigovernativa, può prescindere da una riflessione e da un conflitto per una
diversa presenza delle donne nel mondo dell'informazione? Un dubbio e
una domanda simile l'ho trovata solo in un articolo di Letizia Paolozzi che nota
sul sito Donnealtri come in nome di «un antiberlusconismo primario»
«questa libertà di stampa non sembra avere grande interesse per il sesso
femminile».
Per quanto mi riguarda dichiaro subito di non credere in alcuna battaglia per la
libera informazione che prescinda dal modo in cui viene trattata l'immagine
femminile e dalla presenza e dalla collocazione della giornaliste nella carta
stampata e nella tv pubblica e commerciale.
Le due cose sono strettamente intrecciate. Una maggiore e più qualificata
presenza femminile avrebbe maggiori possibilità (niente è automatico) di
impedire lo scempio che viene fatto oggi dell'immagine delle donne. Una
battaglia vera su come tv e giornali presentano "il secondo sesso" agevolerebbe
una presenza femminile diversa da quella presente nelle televisioni che segue
spesso (ovviamente non sempre) gli stereotipi patinati della giovinezza,
bellezza e della malizia, insomma della "donna dello spettacolo", che poco ha a
che fare col giornalismo.
Oggi alla Rai su un numero di direttori e vicedirettori di rete e di testata che
si avvicina a cinquanta le donne sono solo tre: Maria Pia Ammirati, Susanna
Petruni e Bianca Berlinguer. Possibile che fra le decine di giornaliste del
servizio pubblico non ci sia nessun altra che possa coprire un ruolo dirigente?
Oppure dobbiamo ammettere che siamo di fronte a una limitazione, a un veto non
detto, a una misoginia tanto profonda quanto inconfessata che limita la libertà
delle donne e di cui la battaglia per la libertà di stampa non si fa
assolutamente carico?
Ed è possibile che un grande quotidiano, quello che è stato in prima fila nella
battaglia per la libertà, la Repubblica, non si renda conto che non solo nel
gruppo dirigente del quotidiano, ma fra i commentatori e gli editorialisti la
presenza femminile è così esigua che - pure di grande qualità - scompare nel
grande mare dei commenti e degli editoriali maschili. Così come non se ne rende
conto l'altro grande giornale della borghesia italiana il Corriere della sera il
cui decoro terzista e moderato rimane implacabilmente in mano agli uomini.
Ma non serve un lungo elenco. Non serve denunciare i dati dei canali Mediaset o
degli altri quotidiani nazionali e locali. Dovunque si osservi e si indaghi nei
giornali e nelle tv la libertà di stampa ha questo limite invalicabile e
profondo di cui gli stessi protagonisti della battaglia per la libera
informazione non si rendono conto, anzi ignorano e, spesso, lo fanno con
sufficienza e prosopopea.
Così come tutti - anche in questo caso le poche eccezioni confermano la regola -
danno la stessa rappresentazione delle donne. Anche coloro che si ergono a
difensori della morale, della cultura, della realtà sociale contro i miti e le
illusioni indotti dal berlusconismo non si sottraggono agli stereotipi, non
usano uno sguardo diverso nei confronti delle donne. Nei giornali di questi mesi
immersi, negli scandali del premier abbiamo trovato lo stesso compiacimento
nella descrizione dei corpi delle veline, negli aggettivi usati per le escort e
anche nella implicita contrapposizione a donne virtuose, madri di famiglie,
ragazze studiose e per bene. Linguaggi impudichi, descrizioni compiacenti, il
corpo femminile privato di dignità dalle note vicende del premier, tale è
rimasto nella mancanza di rispetto con cui è stato osservato e trattato dai
difensori della libertà di stampa. Si poteva fare diversamente? Sì si poteva.
Ma ci sarebbe voluto un coraggio e un interesse femminile e partecipato per
capire e raccontare il mondo di quelle giovani ragazze definite veline che
cercano un'affermazione e un lavoro. Per indagare su quelle donne che non si
chiamano più prostitute, ma escort. E sul rapporto fra queste figure
femminili e un mondo maschile non solo berlusconiano, nello stesso tempo forte
prepotente, ma dipendente da una sessualità incapace di prescindere dal
potere. Sì, si poteva, ma nessuno si è posto il problema. E la battaglia
per la libertà di stampa oggi si presenta monca, privata almeno della metà della
sua efficacia. E francamente molto meno credibile.
Ritanna Armeni il Riformista 7.10.09