Condizione di
reciprocità
Un pericolo occulto si annida nella proposta di estensione della cittadinanza
italiana agli immigrati
«meritevoli». Non è l’idea in sé - giustissima e condivisibile - che lascia
perplessi. Ma la
«condizione di reciprocità» che, una volta approvata, potrebbe obbligare noi
italiani ad adottare. Per
intenderci: lo straniero, per ottenere la cittadinanza, deve cessare di essere
tale e diventare, quanto
più è possibile, un italiano. Uno di noi. Non c’è niente di sbagliato, in
questo. Quando una persona
si trasferisce armi e bagagli da un’altra parte del mondo, ci comincia a
lavorare, si radica sul
territorio, assume mentalità, usi e costumi del Paese che la ospita, è fatale
che finisca per «sentirsi»
parte di quella nuova collettività. La cittadinanza, per l’immigrato
«integrato», diventa il
riconoscimento formale che traduce nell’arida lingua della burocrazia un
complesso percorso
esistenziale. E qui cominciano i problemi.
Una volta diventati tali, i nuovi italiani avranno tutto il diritto di
chiedere a noi, vecchi italiani, la
«reciprocità ». Ossia, la dimostrazione di amare questo Paese, le sue
tradizioni, la sua Storia, la sua
lingua, i suoi costumi. Magari sottoponendoci a un esame come quello che
loro hanno dovuto
passare per conquistarsi l’agognato passaporto color cremisi. Lì se ne
potrebbero vedere delle belle.
Quanti «studenti» italiani sarebbero promossi, oggi, all’esame di «italianità »?
Vogliamo parlare
dell’affetto che circonda in certe zone l’eroe nazionale Garibaldi? Della
conoscenza della lingua di
Dante (lingua, attenzione, non dialetto valligiano)? Dell’afflato per l’inno
nazionale? E questo è
niente. C’è un’altra cosa che chiediamo agli immigrati, per diventare «dei
nostri»: rispettare le
leggi. Ma vi rendete conto che cosa succederà quando saranno loro a chiedere, a
noi, di farlo?
Giancarlo De Cataldo l'Unità 29 settembre 2009