Memorandum sulla libertà di stampa

In Italia, la libertà di stampa è stata abrogata in modo formale solo una volta, nel 1925. Benito
Mussolini lasciò la proprietà dei giornali, con grandi possibilità di guadagno, ai loro editori, ma
nominava i direttori, e organi di governo davano ogni sera disposizioni precise e tassative, le stesse
per tutti, sulla scelta e sulla titolazione delle notizie. Ma quella era una dittatura dichiarata. Se ne
può dedurre che la stampa e, da quando ci sono, radio e televisione siano sempre state libere, prima
e dopo la dittatura ? Purtroppo non è così.

Facciamo un po' di storia, e cominciamo con un episodio. Il Giornale, quando lo comperò Silvio
Berlusconi, era diretto da un giornalista illustre: Indro Montanelli. All'inizio il nuovo proprietario,
gestore di stazioni televisive, era poco invadente. Diceva Montanelli: «È un buon editore. Io gli
appalto la pagina degli spettacoli, e per il resto mi lascia fare quello che voglio». Già l'appalto di un
settore del giornale, quello degli spettacoli, era foriero di disastri, e contrastava con la deontologia
giornalistica. Ma tutto cambiò quando Berlusconi entrò in politica. Lui disse allora a Montanelli,
chiaro e tondo, che si aspettava il pieno appoggio del giornale nella campagna elettorale, e dopo.
Montanelli rifiutò: intendeva mantenere la sua libertà di giornalista, la sua indipendenza. Berlusconi
convocò allora la redazione alle sue spalle, per prendere in mano la situazione. Montanelli non esitò
a dimettersi, e si separò, facile immaginare con quanta tristezza, dalla sua creatura.

Molti, in quei giorni, pensarono forse che Berlusconi non avesse tutti i torti. Era il padrone del
giornale. Poiché il giornale aveva un bilancio passivo, lui pagava il deficit. Non poteva dunque
aspettarsi il suo appoggio incondizionato? In Italia, i giornali erano stati considerati attraverso il
tempo, piuttosto che mezzi di informazione, strumenti di potere.
All'estero, in paesi più fortunati del
nostro, imprenditori di genio fondarono organi di stampa come imprese autonome, chi con fini
ideali, per rendere un servizio alla comunità, chi per trarne un guadagno: «vendevano notizie»,
scriveva Luigi Einaudi, come altri vendevano automobili. Einaudi aggiungeva che coloro che
vendevano notizie erano tutto sommato, come editori, i più affidabili: erano, nella terminologia che
poi ha prevalso, "editori puri", cioè senza secondi fini. Ma da noi i grandi industriali come i fratelli
Perrone, il primo degli Agnelli, i tessili della Lombardia, non comperarono o non fondarono il
Messaggero, il Secolo XIX, la Stampa, il Corriere della Sera per trarne un profitto. Lo fecero per
influire sull'opinione pubblica, a vantaggio della loro classe sociale quando andava bene, o a
sostegno delle loro singole industrie. Il governo disponeva a sua volta di fondi segreti, nel periodo
prefascista, per finanziare giornali e giornalisti: corruzione bella e buona.

Enrico Mattei, presidente dell'Eni, fondò in segreto nel 1956 il Giorno (la vera proprietà fu
dichiarata solo dopo tre anni) per combattere ad armi pari contro il potere confindustriale, che
disponeva di organi di stampa. Ed Eugenio Cefis, quando era presidente della Montedison, spiegava
con candore perché facesse incetta di quotidiani: «Le grandi industrie – diceva – posseggono
giornali per lo scambio di favori col potere politico. Per scambiare favori dobbiamo quindi avere
giornali anche noi». Va da sé che ognuno di questi editori "impuri" esercitava il potere sui rispettivi
mezzi di informazione a modo suo, secondo la sua indole e le sue maniere.
Ma l'inquinamento
dell'informazione era una costante. E per molto tempo fu accettato come un male inevitabile. Si
credeva anzi che fosse la normalità. Il concetto di libertà di stampa, in Italia, fu travisato: non
consisteva, si disse, nel dire le cose come stanno, ma nel presentarle in tanti modi diversi, ciascuno
a modo suo. La somma di tante versioni, più o meno inquinate, doveva permettere al pubblico di
farsi un'idea, più o meno approssimativa, della realtà: la verità come somma algebrica delle bugie.

La lottizzazione della Rai, esercitata da tutti i partiti senza eccezione, era un esempio nefasto di
questa perversa mentalità.

Solo attraverso il tempo ci si è resi conto che l'informazione deve essere autonoma: il giornalista
svolge una funzione di pubblica utilità, e ha il dovere di svolgerla secondo scienza e coscienza,
come il medico, come il magistrato, senza servire nessuno.
La categoria ha rivendicato la sua
indipendenza, con più vigore a partire dagli anni Settanta, e i comitati di redazione hanno
combattuto le loro battaglie. Sono sorte nuove testate, in grado di dare al pubblico un'informazione
non adulterata da interessi economici: la loro presenza ha avuto un effetto benefico in tutto il
settore. Il concetto di indipendenza dell'informazione, ormai solidamente stabilito nelle democrazie
moderne in America e in Europa, guadagnava forza anche da noi. Ma il progresso verso una libertà
di stampa reale, non apparente, è stato interrotto e rovesciato in questi ultimi anni: ed è uno dei
danni provocati dall'egemonia berlusconiana.
Silvio Berlusconi, proprietario diretto di mezzi di
informazione (canali televisivi, quotidiani, settimanali, case editrici), è in grado di dettare legge
anche su giornali e televisioni che non sono di sua proprietà, come presidente del Consiglio e come titolare di un potentato economico.

È difficile diventare senza il suo consenso direttore di un  quotidiano la cui proprietà può giovarsi del favore politico, e teme il suo malumore. Insomma: oggi
lui può esercitare su metà del paese le stesse imposizioni che cercò di esercitare su Montanelli,
direttore del Giornale, quando decise di entrare in politica.
La resistenza alla nuova ondata di prepotere politico è compito, in primo luogo, della categoria giornalistica.

È questione, è stato detto, di spina dorsale. Ma questa categoria non è mai stata
unanime e compatta. A un Pannunzio, che dal Mondo combatteva le sue battaglie per la libertà,
stava di fronte un Missiroli, che cinicamente diceva: «Un proprietario di giornale non perde mai soldi, anche se il bilancio del giornale è passivo, perché dal giornale trae altri benefici».

È per queste ragioni che la critica del comportamento di Berlusconi di fronte all'informazione, più che da
noi, è diffusa e severa nella stampa straniera, di paesi cioè che prima di noi hanno scoperto i princìpi della libera informazione: e non hanno ragione di temerlo.


Piero Ottone       la Repubblica  29 settembre 2009