Italia anche questa
è democrazia
Fine della democrazia? Postdemocrazia? No: più banalmente, la democrazia
che c’è. O che ci
meritiamo. I milioni di italiani che accettano questa situazione sono degli
sprovveduti o dei
turlupinati? Stento a crederlo. O se sono complici, di che cosa sono complici
esattamente?
L’uso e l’abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti
i fenomeni attuali
segnala l’incapacità di definire la nostra condizione specifica. Rischiamo di
essere epigoni che si
definiscono per differenza da ciò che c’era prima - un prima spesso idealizzato.
Nel nostro Paese - dove quasi tutti gli studiosi offrono diagnosi sulla soglia
del catastrofismo - c’è
mai stato un momento storico in cui funzionava una buona democrazia o quanto
meno una
democrazia accettabile? La risposta è affermativa a patto che si cancellino o si
sdrammatizzino le
critiche dure che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a
suo tempo. Abbiamo
dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa», «la democrazia
senza alternanza»,
«l’ingovernabilità» e poi «il decisionismo» (craxiano) e «la democrazia
dell’applauso» (Bobbio
1984)?
Alla fine non era unanime la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i
cittadini» di ogni
autentica possibilità di partecipazione democratica?
Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al
quale i difetti denunciati ieri appaiono
persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è trattato di un
accumularsi irreversibile di vizi
di struttura che non sono stati corretti quando si potevano correggere.
Oppure di un «salto di
qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una
giaculatoria
(globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro, tracollo
dei movimenti operai
tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici, e quindi populismi di varia
natura).
Ma perché soltanto nel nostro Paese questi fattori hanno prodotto l’ascesa
irresistibile di un
personaggio come Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la
sovrapposizione
degli interessi privati e pubblici (con l’irrisolto conflitto di interessi) sono
stati la causa o non
piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che
aveva cause e
motivazioni precedenti?
Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più
radicale
dall’immediato dopoguerra. E sembra godere di un consenso che resiste ad ogni
bufera.
I beneficiari e i protagonisti di questa mutazione, politici e
intellettuali, si tengono ben stretto il
successo di cui godono oggi, ma non fanno nessun serio tentativo di dare una
forma concettuale o
ideologica coerente alla situazione che si è creata. Uno solo continua a
parlare e a dettare l’agenda
politica e ciò che resta della cultura politica: Silvio Berlusconi. Gli altri
reagiscono, compresa
l’opposizione.
L’indifferenza intellettuale personale del Cavaliere verso la
qualità culturale del consenso/dissenso
di cui può godere/soffrire si è trasmessa anche ai suoi sostenitori, compresi
gli intellettuali di
professione. Non è fuori luogo il sospetto che la campagna contro il
giornalismo nasconda l’ostilità
al ceto intellettuale come tale.
Se è così, siamo davanti ad un fenomeno interessante in un Paese
tradizionalmente caratterizzato
dall’enfasi e dalla retorica dei «letterati» e degli ideologi. Ma a ben vedere
l’impoverimento della
riflessione politica e ideologica è l’altra faccia della logica del sistema
comunicativo mediatico-televisivo
rispetto alle forme tradizionali di trasmissione sia dell’informazione che della
cultura. La
politica come intrattenimento. Come intermezzo e sintesi del flusso mediatico
continuo.
Che razza di democrazia è questa? In proposito da tempo è stato coniato il
concetto di «populismo
mediatico» che presuppone quello di «democrazia populista». Fermiamoci un
istante a riflettere.
Per decenni a sinistra la critica alla democrazia si è basata sulla distinzione
tra «democrazia
formale» (legata alle elezioni e a procedure di funzionamento riconosciute anche
al sistema italiano)
e «democrazia sostanziale» sempre carente, sempre attesa, sempre invocata.
Oggi questa distinzione sembra aver perso ogni efficacia esplicativa per due
ragioni: per la
rivoluzione mediatica, nel senso detto sopra e, più sottilmente, per la
centralità assegnata nel gergo
politico al concetto di «popolo» - il depositario degli interessi sostanziali
della democrazia.
Pensiamo alla denominazione del «Popolo della libertà» e alla retorica della
Lega. In entrambi i casi
il concetto di popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico
esistente e le sue
regole di rappresentanza.
Berlusconi ha retoricamente introdotto la novità del «popolo-degli-elettori».
Il «popolo» è chi lo
vota. Non è la nazione o l’etnia (vera o inventata) ma un evento politico. La
democrazia del voto
diventa la democrazia tout court. Più la stratificazione sociale
nasconde i suoi connotati di classe
tradizionali, complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle
posizioni di lavoro o di
precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione
personale e sociale più
si crea la finzione del «popolo» che persegue i suoi interessi sostanziali
seguendo il leader. Di
più: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può
pretendere di modificare a
suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è
il fondamento stesso della
democrazia.
Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo
davanti a una
mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il
demos nato come alta finzione di
cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire dal XIX secolo in
collisione, poi in
competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle
varie forme di
democrazia sociale. Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla
destrutturazione delle classi e
dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è
socialmente destrutturato e
frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso
il leader.
Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso
per spiegare l’anomalia italiana molti
analisti (a sinistra) hanno parlano di un’estraneità tra «il sistema politico»
(inefficiente, inadeguato
o appunto di semplice «democrazia formale») e «la società civile» (vitale e
ricca di risorse e di
energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). E oggi quindi molti fanno
appello ad una «società
civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.
E’ un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della
«società civile» italiana. O se
vogliamo, della sua disgregazione e del suo disorientamento. Molte
patologie sociali (generalizzata
assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte
regioni e gruppi sociali
con la criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non
provengono dal
di fuori, ma dal ventre della società civile. Non si tratta di negare
l’esistenza di gruppi, settori, pezzi
di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della
democrazia. Ma è
inaccettabile la contrapposizione di principio tra «la società civile» e il
«sistema politico» come se
fossero due poli ed entità autonome.
Il quadro della democrazia italiana è davvero complicato e difficile da
decifrare. Le pulsioni
autoritarie che provengono dall’alto e da altri settori non sono sufficienti per
tracciare una diagnosi
di una possibile, sia pure soffice, fascistizzazione. Ci sono solidi anticorpi
democratici nel Paese,
dentro e fuori le istituzioni. Non siamo nel 1923 o nel 1924. Assistiamo
tuttavia ad una mutazione
profonda della democrazia che, misurata ai suoi criteri ideali, ci sconcerta.
Ma può e deve essere
guidata. Chi ne ha la capacità?
Gian Enrico Rusconi La
Stampa 15 settembre 2009