Fuori legge
È con un senso di sgomento e di mortificazione civile che siamo oggi qui a
Lampedusa per
discutere della vergognosa politica italiana in materia di immigrazione:
delle scandalose leggi
razziste e incostituzionali varate dall'attuale governo contro gli immigrati,
fino alla
criminalizzazione della stessa condizione di immigrato irregolare; dei
respingimenti di massa
illegittimi, in violazione del diritto d'asilo, di migliaia di disperati che
fuggono dalla fame, o dalle
persecuzioni o dalle guerre; delle violazioni dei diritti e della dignità della
persona negli attuali
centri di espulsione, e più ancora nei lager libici nei quali gli
immigrati respinti vengono destinati;
delle centinaia di morti, infine - fino alla tragedia dei 73 eritrei lasciati
annegare in mare lo scorso
agosto, dopo 21 giorni alla deriva - vittime della disumanità del nostro
governo, immemore della
lunga tradizione di emigrazione del nostro paese
La guerra ai migranti
Ci troviamo di fronte ad un cumulo di illegalità istituzionali, che hanno
provocato critiche e proteste
da parte dell'Onu, dell'Unione Europea e della Chiesa cattolica e che deturpano
i connotati
essenziali della nostra democrazia. (...) Credo sia opportuno, in via
preliminare, misurarne la
contraddizione profonda con i principi più elementari della tradizione liberale.
Entro questa
tradizione, il diritto di emigrare è il più antico dei diritti naturali, essendo
stato proclamato alle
origini della civiltà giuridica moderna. Ben prima della teorizzazione
hobbesiana del diritto alla vita
e di quella lockiana dei diritti di libertà, lo ius migrandi fu
infatti configurato dal teologo spagnolo
Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis svolte a Salamanca
nel 1539, come un diritto
universale e insieme come il fondamento del nascente diritto internazionale
moderno.
Di fatto la sua proclamazione era chiaramente finalizzata alla legittimazione
della conquista
spagnola del Nuovo mondo: anche con la guerra, ove all'esercizio di quel diritto
fosse stata opposta
illegittima resistenza. Tuttavia - benché asimmetrico, non essendo certo
esercitabile dalle
popolazioni dei «nuovi» mondi, ma solo dagli europei che lo invocarono a
sostegno delle loro
conquiste e colonizzazioni - lo ius migrandi rimase da allora un
principio fondamentale del diritto
internazionale consuetudinario.
In nome della proprietà privata
John Locke lo teorizzò come essenziale al nesso proprietà, lavoro, sopravvivenza
sul quale fondò la
legittimità del capitalismo: «la stessa norma della proprietà», in forza della
quale ciascuno è
proprietario dei frutti del proprio lavoro, egli scrisse, «può sempre valere nel
mondo senza
pregiudicare nessuno, poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al
doppio di abitanti» (...).
Kant, a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il «diritto di
emigrare», ma anche il
diritto di immigrare, che formulò come «terzo articolo definitivo per la pace
perpetua». Infine il
diritto di emigrare fu consacrato nell'art.13 della Dichiarazione universale dei
diritti nel 1948 e in
quasi tutte le odierne costituzioni, inclusa quella italiana (...).
Ho ricordato queste origini dello ius migrandi perché la loro memoria
dovrebbe quanto meno
generare una cattiva coscienza in ordine all'illegittimità morale e
politica, ancor prima che giuridica,
della legislazione contro gli immigrati. Quell'asimmetria, in forza
della quale quel diritto fu
utilizzato dai soli occidentali a danno delle popolazioni dei nuovi mondi, si è
oggi rovesciata. Dopo
cinque secoli di colonizzazioni e rapine non sono più gli europei ad emigrare
nei paesi poveri del
mondo, ma sono al contrario le masse affamate di questi stessi paesi che premono
alle nostre
frontiere. E con il rovesciamento dell'asimmetria si è prodotto anche un
rovesciamento del diritto.
Oggi che l'esercizio del diritto di emigrare è divenuto possibile per tutti ed è
per di più la sola
alternativa di vita per milioni di esseri umani, non solo se ne è dimenticato
l'origine storica e il
fondamento giuridico nella tradizione occidentale, ma lo si reprime con la
stessa feroce durezza con
cui lo si è brandito alle origini della civiltà moderna a scopo di conquista e
colonizzazione. Nel
momento in cui si è trattato di prenderne sul serio il carattere «universale»,
quel diritto è infatti
svanito, capovolgendosi nel suo contrario: tramutandosi in reato.
È questa l'enorme novità dell'attuale legislazione italiana rispetto alle stesse
leggi anti-immigrazione
del passato, come la Bossi-Fini o le varie leggi contro gli immigrati degli
altri paesi europei: la
criminalizzazione degli immigrati clandestini. (...)
Ma oggi la novità della criminalizzazione degli immigrati compromette
radicalmente l'identità
democratica del nostro paese. Giacché essa ha creato una nuova figura:
quella della persona illegale,
fuorilegge solo perché tale, non-persona perché priva di diritti e perciò
esposta a qualunque tipo di
vessazione; destinata dunque a generare un nuovo proletariato, discriminato
giuridicamente e non
più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente.
Il salto di qualità consiste dunque nei connotati intrinsecamente razzisti
della nuova legislazione:
dapprima del decreto legge n.92/2008, convertito in legge il 24 luglio del 2008,
che ha introdotto,
per qualunque reato, l'aggravante della condizione di clandestino, l'aumento
della pena fino a un
terzo e il divieto di concedere le attenuanti generiche sulla sola base
dell'assenza di precedenti penali; poi, soprattutto, della legge sulla sicurezza
(...).
È stato infine allungato da 2 a 6 mesi il tempo di
permanenza dei clandestini nei centri di espulsione (Cie). Infine le norme
apertamente
razziste, di triste memoria nel nostro paese: il divieto dei matrimoni misti per
l'immigrato irregolare,
gli ostacoli alle rimesse di denaro alle famiglie; il divieto per quanti sono
privi del permesso di
soggiorno di iscrivere i figli all'anagrafe, con il conseguente pericolo che
questi, non essendo
riconosciuti, possano essere dati in adozione e sottratti alle loro madri, la
cui sola alternativa sarà il
parto clandestino e la clandestinità dei loro figli.(...)
Buttati a mare
La cosa più sconfortante è che queste leggi non sono bastate a soddisfare le
pulsioni razziste
presenti nell'attuale governo. Anch'esse, benché crudelmente discriminatorie,
sono state violate dal nostro governo.
È quanto è accaduto in questi mesi, a partire dallo scorso 6
maggio, con l'infamia
dei respingimenti in mare, nel corso dei quali centinaia di persone sono state
rigettate, a rischio
della loro vita, nei campi libici o nei loro paesi di provenienza. Questi
respingimenti sono illegali
sotto più aspetti. Hanno violato, anzitutto, il diritto d'asilo stabilito
dall'articolo 10 (comma 3) della
Costituzione per «lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo
esercizio delle libertà
democratiche», giacché le navi italiane con cui gli immigrati vengono riportati
in Libia sono
territorio italiano, siano esse in acque territoriali o in acque
extraterritoriali. E lo hanno violato
doppiamente, giacché questi disperati vengono respinti in quei veri lager che
sono i campi libici,
dove sono destinati a rimanere senza limiti di tempo e in violazione dei più
elementari diritti umani.
Hanno violato, in secondo luogo, la garanzia dell'habeas corpus stabilita
dall'articolo 13 (3 comma)
della Costituzione: questi respingimenti si sono infatti risolti in
accompagnamenti coattivi, non
sottoposti a nessuna convalida giudiziaria. (...) Infine sono state violate le
convenzioni
internazionali che l'Italia, nell'articolo 10 della Costituzione si è impegnata
a rispettare: l'art.13 della
Dichiarazione universale dei diritti umani sulla libertà di emigrare; l'art.14
della stessa
Dichiarazione sul diritto d'asilo; l'art.4 del protocollo 4 della Convenzione
europea dei diritti umani
che vieta le espulsioni collettive.
Infine l'ultimo, dolente capitolo: quello dei «centri» che prima si chiamavano
«di accoglienza» e
che la nuova legge chiama «centri di identificazione e di espulsione», nei quali
gli immigrati
possono restare reclusi non più per 60 giorni, come secondo la vecchia legge, ma
per sei mesi.
Questi centri sono veri luoghi di detenzione: una detenzione, peraltro, ancor
più grave e penosa di
quella carceraria, dato che è sottratta a tutte le garanzie previste per i
detenuti, a cominciare dal
ruolo di controllo svolto dalla magistratura di sorveglianza.
Sono stati così creati dei centri, dei luoghi, dei campi di concentramento
- chiamiamoli come
vogliamo - in cui vengono recluse persone che non hanno fatto nulla di
male, ma che vengono
private di qualunque diritto e sottoposte a un trattamento punitivo senza
neppure i diritti e le
garanzie che accompagnano la stessa pena della reclusione. In questi
centri la violazione dell'habeas
corpus è totale.(...)
Queste norme e queste pratiche rivelano insomma un vero e proprio razzismo
istituzionale. (...) Esse
esprimono l'immagine dell'immigrato come «cosa», come non-persona, il cui
solo valore è quello di
mano d'opera a basso costo per lavori troppo faticosi, o pericolosi o umilianti:
tutto, fuorché un
essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini.
Categorie criminali
C'è un altro aspetto, ancor più grave, del razzismo istituzionale espresso da
queste norme e dalla
campagna sulla sicurezza a loro sostegno: il veleno razzista da esse
iniettato nel senso comune.
Queste norme e questa campagna non si limitano a riflettere il razzismo diffuso
nella società, ma
sono esse stesse norme razziste - le odierne «leggi razziali», è stato detto, a
distanza di 70 anni da
quelle di Mussolini - che quel razzismo valgono ad assecondare e a
fomentare, stigmatizzando
come pericolosi e potenziali delinquenti non già singoli individui sulla base
dei reati commessi, ma
intere categorie di persone sulla base della loro identità etnica. (...)
Questo razzismo istituzionale rischia di minare alle radici la nostra
democrazia. Al tempo stesso, le
politiche e le leggi che ne sono espressione possono solo aggravare e
drammatizzare tutti i problemi
che si illudono di risolvere. Mentre non saranno mai in grado di fermare
l'immigrazione, avranno
come effetto principale l'aumento esponenziale del numero dei clandestini e la
loro emarginazione
sociale inevitabilmente criminogena. E' infatti evidente che, come già è
accaduto per l'emigrazione
italiana negli Stati Uniti negli anni venti e trenta del secolo scorso, la
condizione di debolezza e di
inferiorità degli immigrati finisce inevitabilmente per spingerli
nell'illegalità, alla ricerca della
solidarietà e della protezione di altri immigrati clandestini e di consegnarli,
magari, al controllo
delle mafie. Occorre al contrario essere consapevoli della complementarità e
della convergenza tra
sicurezza e integrazione sociale: una politica a garanzia della sicurezza non
solo non esclude, ma
implica la massima integrazione degli immigrati, attraverso il riconoscimento
della loro dignità di
persone e la garanzia di tutti i diritti della persona.
Luigi Ferrajoli il
manifesto 12 settembre 2009