Le dicerie contro
la verità
Una guerra mentale è in corso in Italia, condotta dall’esecutivo per
tacitare, intimidendola, il
controllo esercitato dalla stampa e per neutralizzare ogni sorta di
contropotere. Nei confronti della
stampa assistiamo a vere rese dei conti, e per capire quanto sta accadendo è più
che mai urgente
distinguere tra due attività: la diffusione di dicerie, e l’accertamento dei
fatti. La guerra non ha
come soli protagonisti l’élite politica e giornalistica: ogni cittadino - se
vuol restar cittadino - è
chiamato a distinguere l’opinione dal fatto, la calunnia dal disvelamento di
reati. L’offensiva di
Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il
potere esecutivo ma è al
contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in
essi uno stato
confusionale diffuso.
All’origine del dispositivo bellico c’è una sensazione di debolezza acuta:
l’esecutivo ha
l’impressione di non poter fare politica senza un’opinione pubblica che non solo
approvi i suoi
programmi ma esalti il capo considerandolo legibus solutus, non soggetto
alla legge.
Manuel Castells, studioso dell’informazione, si sofferma sui metodi delle guerre
mentali nei media.
Il termine fu coniato a proposito del conflitto in Vietnam da Paul Vallely,
analista di Fox News: «Se
perdemmo la guerra - così Vallely - non è perché fummo sconfitti sul campo ma
per la guerra
psicologica dei media», e perché il potere non seppe contrapporre una sua
«guerra mentale»
(Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi 2009).
È simile la guerra mentale di Berlusconi, e simili sono gli
strumenti, da lui maneggiati con perizia e
risorse sovrabbondanti prima ancora di entrare in politica: sin dall’inizio la
sua battaglia fu di
trasformare i mezzi televisivi d’informazione in mezzi di distrazione,
infotainment, gossip. «Per
questo è così importante - prosegue Castells - che i magnati dei media non
diventino leader politici,
come nel caso di Berlusconi». Per questo è legittima la domanda del direttore di
Famiglia
Cristiana, don Sciortino: «Quello che accade non riguarda solo il giornalismo.
Quando in un Paese
è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di
criticare o di
commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo
controllo del
sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?».
La guerra mentale ha fini e mezzi specifici. Il fine è
il pensiero dell’uomo della strada («questa
creatura mitologica che ha rimpiazzato la cittadinanza nel mondo mediatico»,
scrive Castells). Il
mezzo è la confusione dei concetti, il caos nell’uso delle parole. Si parla
molto, in questi giorni, di
killeraggio o imbarbarimento generale: concetti perversi oltre che diseducativi,
perché escogitati per
rendere appunto confondibili, in un magma indistinto, i due comportamenti
radicalmente diversi che
sono la diceria e l’accertamento dei fatti. Tutti sarebbero killer: il
giornalista che interroga
criticamente il Premier (rapporti di suoi collaboratori con la mafia, corruzione
di testimoni e
magistrati, coinvolgimento in giri di prostituzione) e quello che costringe alle
dimissioni il direttore
dell’Avvenire Dino Boffo, usando veline anonime. Proviamo dunque a distinguere
quel che viene
confuso.
Una cosa è la diceria. Nella Russia di Putin si chiama
kompromat, materiale che compromette e può anche spedirti in Siberia. È
la calunnia che insinua fabbricando prove, e mira a distruggere il
carattere dell’avversario politico (character assassination, in inglese).
In genere la diceria ha come
obiettivo la vita privata del politico, non il suo programma o la cura che egli
ha della repubblica e
dei suoi vincoli.
Altra cosa è l’indagine sui comportamenti dei politici (comprese le
massime cariche dello Stato) e
sulla verità dei fatti. L’oggetto della ricerca sono condotte che hanno
rilevanza pubblica. Da questi
comportamenti può derivare un carattere personale più o meno ostico, ma il
bersaglio non è il
carattere. Ambedue i procedimenti, è vero, si propongono di indebolire chi
è preso di mira, di delegittimare il
leader. Sono ambedue guerre mentali, volendo persuadere chi l’uomo della strada,
chi il cittadino,
ma il funzionamento della democrazia è influenzato in modi ben diversi dai due
operati.
La democrazia accetta il conflitto, esige e stimola la ricerca del vero,
anche se il vero è scomodo per
il potente. E l’accetta continuativamente, non solo il giorno del voto,
perché democrazia non è
Unzione dell’Eletto ma un arcipelago di poteri che si frenano l’un l’altro
affinché nessuno
commetta abusi. Questo gioco di equilibri è garantito dalle costituzioni e
da poteri autonomi, tra cui campeggiano la stampa e la televisione.
È in tale ambito che la differenza fra accertamento dei
fatti e calunnia diventa cruciale. La verità sul comportamento del
politico è il fine di chi esercita un
contropotere, e l’effetto che si vuol ottenere è la correttezza e
l’autolimitazione del potere. Non vuol distruggere, ma correggere.
Può darsi che la verità si riveli falsa. È per questo che il
cercatore del vero raduna prove, fatti, sentenze di tribunale.
La diceria vuole non salvaguardare ma abolire l’equilibrio dei poteri:
personalizzando-privatizzando
la politica, accentrando tutti i poteri. La sua guerra mentale è
distruttiva: nella testa degli elettori,
dei telespettatori, dei lettori, va lacerato tutto quel che li lega alle norme
costituzionali, alla politica,
allo Stato, alle istituzioni, ai giornali, alla chiesa stessa. È uno
strumento antico, è l’anti-Stato
teorizzato nelle stagioni terroriste. Fruga, non cerca. La diceria ha un
rapporto singolare con la
verità, non più fine ma mezzo di scambio utile a sganciare il principe dalle
leggi: se tu dici una
verità amara su di me, io ne dirò una peggiore su di te. Da tempi immemorabili
la calunnia viene
usata in tempi di torbidi, non quando lo Stato è forte ma quando vacilla
(Rivoluzione francese,
uscita dal Terrore nel Termidoro).
Se tutto è diffamazione privata, anche la ricerca della verità
pubblica scade al rango di diceria, di
assassinio di carattere. Perfino chi condanna l’attacco al direttore
dell’Avvenire, perfino chi chiede
più prudenza alla Chiesa (un direttore gay è ricattabile se dirige il quotidiano
della Cei, scrive
Vittorio Messori sul Corriere della Sera), dimentica che la parola chiave nella
questione Boffo non è
l’omosessualità, ma le minacce a un privato cittadino: un decreto penale di
condanna, nel 2004, lo
giudicò colpevole di molestie telefoniche, nei confronti di una giovane donna,
durate 6 mesi.
L’omosessualità non c’entra niente: quel che conta è un comportamento
(l’intimidazione) di
rilevanza pubblica. Patteggiamenti o risarcimenti aboliscono la pena, non il
fatto.
La cosa più grave per i giornalisti sarebbe reagire all’offensiva contro
alcuni giornali e reti
televisive dividendosi. Accusandosi l’un l’altro di temerarietà o
codardia, a seconda. Sostiene
Berlusconi che alle dieci domande risponderebbe, se fossero altri giornali a
porle. Dicendo questo,
egli ammette che domandare è lecito e che rispondere è doveroso. Motivo di più
perché tutti
continuino a porre domande al premier.
Ricordiamo quel che accadrebbe in Francia e Germania, in simili circostanze. In
entrambi i paesi è
ben raro che i giornalisti si aggrediscano l’un l’altro (tranne in presenza di
reati). Ma se una o più
testate sono attaccate per la determinazione con cui indagano sui potenti, tutta
la professione fa quadrato.
È come se valesse, non scritta, una legge simile all'articolo
5 del Patto Atlantico: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o
più di esse... sarà considerato come un attacco
diretto contro tutte le parti». Fare lo stesso in Italia aiuterebbe a
preservare l’arcipelago di poteri di
cui è fatta la democrazia.
Barbara Spinelli La Stampa 6 settembre 2009