La complicità del
silenzio
Titi Tazrar è una dei cinque sopravvissuti al viaggio dei disperati. Ha 27 anni.
E´ ricoverata all
´ospedale di Palermo. La attende, lei e gli altri sopravvissuti,
l´incriminazione per il reato di
immigrazione clandestina. I procuratori competenti per territorio non hanno
alternative: non
possono ignorare l´art. 10 bis del decreto sicurezza. Né possono ignorarlo gli
italiani che vanno per
mare. Sono le leggi che creano i reati; creano anche l´omertà, la volontà di
chiudere gli occhi, la
capacità di non sentire le grida di aiuto, di chi non vedeva i convogli di
deportati del Terzo Reich e
di chi navigando oggi nel mar di Sicilia ignora i barconi africani.
Dietro la paura c´è il potere. Noi
tutti dimentichiamo volentieri quanto l´opera del potere sia efficace nel
modellare la pasta morale
dell´umanità. Oggi in Italia il decreto sicurezza produce paura, produce morte,
cancella le reazioni
umanitarie. Bisogna cancellare il decreto, denunziarlo davanti al mondo,
sperare nell´intervento di
autorità esterne visto che non possiamo sperare in una rivolta del paese.
Ma per ora, aspettando il
processo e l´espulsione, Titi Tazrar è ancora in Italia. I giornalisti la
cercano, lei risponde in uno
stentato inglese. Una cosa ha detto che ci interroga tutti: «Sono partita perché
volevo venire in
Italia. Non in Germania o Francia, ma in Italia. Voglio restare qui». A questa
domanda si deve dare
una risposta. Una sola. Titi deve restare qui, con gli altri superstiti.
Perché al disopra della legge
scritta c´è la giustizia, senza di che la legge è arbitrio, violenza, suprema
ingiustizia. Chi ha
attraversato l´inferno di quei pochi chilometri di mare senza trovare fra gli
infiniti natanti che lo
affollano un briciolo di umanità, chi ha visto finire a mare prima i bambini
abortiti poi le loro madri
poi tutti gli altri, non può essere rimandato al punto di partenza. Se
accettassimo in silenzio questo
esito saremmo complici di un infame gioco dell´oca. Titi e i quattro
sopravvissuti con lei hanno
conquistato un diritto.
Lei è partita per venire proprio qui da noi. E noi italiani
scopriamo all´improvviso nella sua frase la
risposta al problema che da giorni è al centro del confuso discorrere sul se e
sul come celebrare il
centocinquantesimo anniversario dell´unità d´Italia. Lo ha capito subito con una
dichiarazione che
gli fa onore il Presidente della Camera Fini quando ha detto che bisogna far
sentire «l´Italia come
patria anche a coloro che vengono da paesi lontani e che sono già o aspirano a
diventare cittadini
italiani». Patria è la parola giusta. Oggi se ne parla guardando solo al
passato. Ritengono alcuni che
si tratta di ritrovare o di ribadire una specie di identità collettiva che
avremmo ereditato perché qui
siamo nati; argomento non di qualità diversa da quello di chi propone invece di
sostituire all´Italia
la sua piccola patria locale, il pezzo di suolo dove gli fa comodo vivere e di
cui vorrebbe chiudere le
porte agli altri. Ebbene, in questione non è l´indiscutibile appartenenza di
fatto e di diritto della
popolazione italiana a uno fra gli stati europei; né lo è il dovere delle nostre
istituzioni di esplorare e
commemorare e far conoscere le ragioni e i caratteri storici e culturali
dell´esistenza del paese. Tutto
questo è doveroso, ma non sufficiente.
Ciò che abbiamo ricevuto - dice una famosa massima di Goethe - dobbiamo
conquistarlo perché
possiamo dirlo nostro. Da noi la passività dell´eredità ricevuta è
moltiplicata dagli abissi di
ignoranza di un paese in preda all´analfabetismo di ritorno. Oggi il
problema è ancora quello antico:
la nazione come volontà e speranza di futuro. Un plebiscito di tutti i giorni,
diceva Ernest Renan. A
questo plebiscito aderisce oggi Titi Tazrar quando affronta il deserto e
l´orrore in nome di una
speranza e di un desiderio che ha nome Italia. Quanto a noi italiani, con lei e
con tutto il suo popolo
abbiamo un grande debito storico, una promessa non mantenuta. Titi è figlia di
un popolo che fu
unito a quello italiano nelle sofferenze e nelle miserie delle nostre guerre
coloniali. Accanto agli
eritrei hanno vissuto e combattuto tanti italiani, poverissimi come loro,
spediti in guerra da una
patria che stava nel cuore di uomini come il siciliano Vincenzo Rabito, autore
dell´indimenticabile
Terra matta, che come lui non riconobbero più la patria in quella "porca Italia"
fascista che li
mandava a combattere altri disperati come loro, ma che si riconciliarono poi con
la riconquistata
libertà del paese.
La storia della patria italiana è quella dei processi di
integrazione che hanno portato le masse a
diventare coscienti del loro essere l´Italia. Processi lunghi, difficili, spesso
bloccati e rovesciati da
scelte sbagliate. Se Cavour ebbe chiara coscienza del fatto che una volta creata
l´Italia bisognava
creare gli italiani, le lacerazioni e le violenze di una storia più che secolare
hanno attraversato e
ostacolato quel progetto, lasciando alla polemica clericale il facile
compito di seminare tra le classi
popolari delle campagne il discredito verso lo scomunicato Stato liberale.
E si può ben capire che
non fosse vissuto come patria uno stato che mandava l´esercito nel Mezzogiorno a
piegare i
cosiddetti briganti e nelle pianure padane la polizia a incarcerare gli
scioperanti. Come disse
Camillo Prampolini nel 1894, replicando in Parlamento all´accusa di Crispi ai
socialisti di essere
"senza patria", il problema era precisamente quello di dare una patria alla
massa dei diseredati, ai
braccianti di Molinella come ai contadini veneti guidati dai parroci che si
affollavano sulle banchine
di Genova. L´integrazione di quelle masse nella vita del paese richiese lotte
durissime, passò
attraverso lacerazioni profonde, costò l´immane bagno di sangue della prima
guerra mondiale.
Oggi i loro nipoti non raccolgono più i pomodori nell´agro napoletano e loro
eredi non sono
costrette a lavori domestici e ad assistere vecchi e malati: sono liberi, liberi
di studiare, viaggiare,
sviluppare attività creative e produttive. Al loro posto sono subentrati quelli
che sono per ora degli
schiavi, dei ribelli, dei fratelli in spirito di Vincenzo Rabito, tentati come
lui dalla ribellione allo
sfruttamento disumano ma tentati ancor più dalla speranza di diventare i nuovi
italiani. Davanti a
noi c´è una alternativa: taglieggiarli con le sanatorie, chiuderli in centri di
espulsione, oppure tentare
la scommessa dell´integrazione. Con le plebi senza diritti del nostro passato,
con quei contadini e
operai tentati da una speranza che si chiamava rivoluzione proletaria e
cancellazione delle patrie
borghesi, l´integrazione è avvenuta: una imprevedibile svolta della storia ha
portato un´Italia scalciante e urlante nel mezzo dello sviluppo civile del 900.
È sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un
senso alla celebrazione dell´unità d´Italia guardando avanti, a una
nuova e più coraggiosa integrazione.
Adriano Prosperi la
Repubblica 25 agosto 2009
Respinti finora 800
extracomunitari, quasi tutti avevano diritto d´asilo
C´è un dettagliato rapporto del Viminale che ha registrato tutti i
"respingimenti" compiuti dalle
motovedette italiane (Finanza e Marina Militare) e in cui vengono indicate le
nazionalità degli
exracomunitari trovati in mare dal maggio scorso e riportati in Libia o
consegnati alle motovedette
libiche. Sono annotati 14 respingimenti per un totale di 800 extracomunitari, la
maggior parte dei
quali sono eritrei, etiopi, somali e nigeriani, tutte persone che, secondo le
convenzioni
internazionali, dovevano essere identificate dagli italiani e che potevano
richiedere asilo ed ottenere
lo status di rifugiato politico. Invece sono state identificati dalle autorità
libiche, mentre i militari
italiani continuano a respingerli senza neanche sapere da dove vengono e chi
sono.
E tra questi "respingimenti" registrati dal rapporto del Viminale anche quello
della notte tra il 30
giugno ed il primo luglio scorso, quando il pattugliatore della Marina Militare
Orione ha soccorso
in mare 82 extracomunitari, quasi tutti eritrei, e li ha poi consegnati ad una
motovedetta libica. In
quell´occasione sette eritrei denunciarono di essere stati «maltrattati» e
«picchiati» dai marinai
italiani. Il rapporto del Viminale potrebbe anche essere acquisito dalla Procura
della Repubblica di
Agrigento che, nei prossimi giorni, potrebbe estendere il raggio della sua
inchiesta anche alle
procedure di respingimento da parte delle motovedette italiane di
extracomunitari intercettati nel
Canale di Sicilia. «Quella dei respingimenti è una questione politica - dice il
procuratore di
Agrigento Renato Di Natale - E´ chiaro pero che se sul territorio di nostra
competenza dovessimo
avere notizie di reato intervenire sarebbe un atto dovuto».
E un «atto dovuto» è stata anche l´iscrizione nel registro
degli indagati dei cinque superstiti della
traversata che è costata la vita a 73 persone, tutte provenienti da Etiopia ed
Eritrea. Il reato loro
addebitato è quello di immigrazione clandestina. «Viste le norme del recente
decreto sicurezza - ha
sottolineato il procuratore della Repubblica di Agrigento, Renato Di Natale -
non possiamo farne a
meno». I migranti avrebbero però già manifestato l´intenzione di chiedere
l´asilo politico e dunque,
nel caso in cui i pm accertassero il diritto allo status di rifugiati,
l´inchiesta sarebbe archiviata.
Ipotesi data per scontata dal prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento per
l´immigrazione del
ministero dell´Interno, che dice: «I cinque eritrei non rischiano nulla se
presentano la richiesta di
asilo che, generalmente, per i Paesi in particolari situazioni di disagio, viene
accolta. Il
provvedimento avviato è sospeso fino alla definizione della domanda d´asilo.
L´Italia -spiega
ancora Morcone - ha aderito ad una direttiva Ue che prevede l´asilo politico non
solo per le persone
perseguitate politicamente, ma anche per chi proviene da zone di guerra. Gli
eritrei godono di
questo tipo di protezione ma devono fare domanda d´asilo».
Ieri, intanto, tre dei cinque clandestini soccorsi sono stati interrogati dal
magistrato titolare
dell ´indagine, il sostituto procuratore Santo Fornasier. Gli altri due,
ricoverati ancora in condizioni di
salute gravi all´ospedale Cervello di Palermo, non sono in grado di parlare. In
Procura è anche
arrivato il primo rapporto stilato dalla Guardia di finanza sulle modalità delle
operazioni e sui tempi
di soccorso dei cinque naufraghi, dopo la segnalazione arrivata dalle autorità
maltesi che pure
avevano già avvistato il gommone alla deriva da diversi giorni. Resta da
accertare anche la
competenza dell´indagine: tutto dipende dal tratto di mare in cui è avvenuto il
primo contatto con i
migranti.
Ai magistrati agrigentini fa appello il Cir (Consiglio italiano dei rifugiati)
che ricorda che negli
ultimi anni migliaia di rifugiati e migranti sono stati salvati nel Mediterraneo
da forze militari
italiane: «Ora chiediamo che sia fatta immediatamente un´indagine per chiarire
gli eventi della notte
tra il 30 giugno e il 1 luglio e che i responsabili di eventuali reati siano
identificati. Chiediamo
anche che il Parlamento sia tempestivamente informato». La politica di
respingimento di rifugiati e
richiedenti asilo verso la Libia deve subito cessare, ha dichiarato, Christopher
Hein, direttore del
CIR. «Non è tollerabile che il Canale di Sicilia diventi una zona franca in cui
nessuna legge è
rispettata».
Francesco Viviano la Repubblica
25 agosto 2009