Identità, la triste posta
Ancora scontri e
saccheggi a Bengasi per la maglietta di Calderoli. Trenta morti e duecentotrenta
feriti in Nigeria, per le vignette su Maometto e per un atto di profanazione del
corano in una scuola. Manifestazioni islamiche, chiese cristiane incendiate e
arresti in Pakistan (altro seguirà, in occasione della visita di Bush) e in
Afghanistan, con gli studenti che minacciano di arruolarsi in Al Quaeda. Fatwa
di condanna a morte del vignettista danese emanata da un tribunale islamico in
India. Il quotidiano saudita
Shams chiuso dal ministro
dell'informazione per aver riprodotto alcune vignette, il quotidiano russo
Nash Reghion
chiuso dalla proprietà per la stessa ragione.
E non basta, perché se Atene piange Sparta non ride: in Nuova Zelanda a sentirsi
offesa non è l'islam fondamentalista ma la chiesa cattolica, e la colpa non è
delle vignette sul Profeta ma la serie tv di cartoni animati «South Park», già
annullata negli Stati uniti su pressione di un gruppo cattolico, che fa satira
(non granché fine) su una statua della Madonna sanguinante, donde l'invito dei
vescovi a boicottare i prodotti pubblicizzati dall'emittente. Mentre poco più in
là, in Australia, il primo ministro Howard dà alle stampe un libro in cui
stigmatizza la diversità culturale degli immigrati musulmani definendola
«antagonistica e inassimilabile», e assesta così l'ennesimo colpo al
multiculturalismo australiano.
Non è lo scontro di civiltà,
se non nei desideri di chi lo attizza, e anzi a saperla leggera distintamente è
una mappa del conflitto diversificata, che spacca al suo interno il mondo
islamico (e quello cristiano) e in cui giocano fattori sociali e politici locali
di segno perfino opposto. Ma certo è una guerriglia globale in cui le religioni
hanno ormai conquistato un ruolo simbolico e politico primario, e da comprimarie
giocano sulla scena politica contrattando con i governi fatwe, libertà
d'espressione, limiti etici ed estetici. Ed è - si badi - una guerriglia tutta
interna al campo politico e culturale che nel lessico politico occidentale
corrisponde alla destra, e che in termini globali sarebbe più preciso definire
come il campo che ha per posta in gioco principale quella dell'identità. Per
ragioni identitarie il quotidiano danese (di destra) pubblica le vignette
anti-Maometto, per ragioni identitarie gli islamici fondamentalisti si sollevano
per ogni dove. Per ragioni identitarie Howard stigmatizza gli immigrati islamici
(inventandosi un'identità australiana che non c'è, essendo a sua volta una
stratigrafia di identità ridisegnate e reimmaginate dalle immigrazioni di due
secoli); per ragioni identitarie Calderoli brandisce la sua maglietta contro gli
immigrati islamici in Italia come l'aglio contro le streghe, e lungi dal
battersi il petto incassa il risultato dei morti di Bengasi per la campagna
elettorale identitaria che la Lega si appresta a fare associando alla ricerca
dell'identità perduta padana quella siciliana.
Quattro anni e mezzo dopo l'11 settembre ovunque nel
mondo si va facendo chiaro che il conflitto non è fra due civiltà ma fra una
politica dell'identità e una politica non identitaria, ovvero declinata sulla
differenza e capace di mettere in relazione le differenze. Solo che mentre le
destre e i fondamentalisti sull'identità hanno le idee chiare e le armi
affilate, sulla/e differenza/e le sinistre e i laici hanno le idee confuse e
l'argomento unico della tolleranza, che è un argomento dai confini incerti (chi
e in base a che ne decide le soglie?) e sempre a rischio di sfumare o
nell'indifferenza per l'altro o nell'assimilazione dell'altro. Senza affrontare
questo problema che dà il timbro al mondo presente, è inutile sperare in
qualsivoglia palingenesi elettorale. Com'è stato inutile affidarsi alla
mitologia europeista, se sotto il sorriso delle vignette è pronta a riemergere
del vecchio continente più la radice delle guerre di religione che quella del
sincretismo etnico e culturale.
IDA DOMINIJANNI Il manifesto 21/02/2006