L’etica pubblica
perduta
Tutto comincia con la pretesa dell´impunità che va ben oltre il lodo
Alfano
Quando qualcuno dice che il re è nudo lui si infuria: sostiene si tratti di lesa
maestà
Etica pubblica. Parole perdute, e al loro posto un deserto, dove scompare
la responsabilità della politica, privacy vuol dire fare il comodo proprio, il
senso dello Stato è ormai un´anticaglia. Ogni giorno, più che una nuova
pena, porta una mortificazione continua del vivere civile, con un
circuito di imbarazzanti ospitalità, che vanno da quella generosamente offerta a
schiere di ragazze dal Presidente del Consiglio fino a quella elargita con
altrettanta generosità allo stesso Presidente da giudici costituzionali.
Registrare questi fatti vuol dire moralismo, eccesso di voyeurismo, ultima
spiaggia di una opposizione senza idee, antiberlusconismo da abbandonare?
O siamo di fronte ai segni di un processo di decomposizione di cui i
protagonisti non sembrano neppure consapevoli, tanto sono sgangherate le difese
loro e dei loro sostenitori, affidate alla disinvoltura del mentire e del
contraddirsi senza pudore, a censure televisive, a lettere imbarazzanti e più
rivelatrici d´una confessione?
Il catalogo è questo, ed è lungo. Tutto comincia con la pretesa
dell´impunità, ma una impunità totale, che non si concentra solo nel lodo Alfano
e dintorni, ma si estende in ogni direzione, diventa diritto assoluto di
stabilire che cosa possa essere considerato lecito e che cosa (poco, assai poco)
illecito, che cosa sia pubblico e che cosa debba rimanere privato. Il
voto popolare diventa un lavacro e una unzione. Ancora oggi, quando si parla
di conflitto d´interessi, spunta una schiera di avvocati difensori che esibisce
un argomento in cui si mescolano arroganza e disprezzo d´ogni regola: "Di
conflitto d´interesse si è parlato mille volte, i cittadini lo sanno e il loro
voto a Berlusconi, quindi, respinge nell´irrilevanza politica e giuridica quel
conflitto". Non si potrebbe trovare una mortificazione della democrazia e
della sovranità popolare più eloquente di questa. Il voto dei cittadini è
degradato a scappatoia per sottrarsi alle regole e alla decenza etica. E,
quando, finalmente qualcuno dice che il re è nudo (ahimè, in tutti i significati
possibili), il re s´infuria, si comporta come se chiedere spiegazioni fosse un
delitto di lesa maestà.
Improvvisamente lo spazio pubblico gli sembra insopportabile, proprio quello
spazio che aveva voluto costruire a propria immagine e somiglianza, e nel quale
si radica non piccola parte del suo consenso. Alla vigilia di una tornata
elettorale di qualche anno fa, milioni di italiani ricevettero un colorito
libretto dove Silvio Berlusconi esibiva e rivelava infiniti dettagli della
propria vita privata, compresi il nome del suo camiciaio e quello del fornitore
di cravatte. Campagna all´americana si disse, ovviamente. Ma l´America è
un´altra cosa, è il paese dove la Corte Suprema fin dal 1973 ha stabilito che
gli uomini pubblici hanno una minore "aspettativa di privacy", dove
proprio in questi giorni, sull´onda di uno scandalo che rischia di spegnere le
ambizioni del governatore della Carolina del Sud, si sono unanimemente ribaditi
due capisaldi dell´etica pubblica: un uomo politico non può mentire; deve
accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la
coerenza tra i valori proclamati e i comportamenti tenuti. Niente doppia
morale, niente vizi privati e pubbliche virtù per chi riveste funzioni
pubbliche, alle quali è giunto per scelta e non per obbligo, e del cui esercizio
deve in ogni momento rendere conto alla pubblica opinione. Ma il contagio
berlusconiano si è diffuso, come dimostra l´imbarazzante vicenda che ha visto
protagonisti due giudici costituzionali.
"A casa mia faccio quello che mi pare", diceva il Presidente. "A casa mia invito
chi mi pare" (con contorno di assicurazioni sulla riservatezza della fedele
domestica), viene di rincalzo il giudice. E chi non accetta queste sbrigative
forme di autoassoluzione viene bollato come gossipparo, guardone dal buco della
serratura, spione, nostalgico dell´Inquisizione, fautore della società della
sorveglianza… Ma le cose non stanno così, e basta un´occhiata alle regole della
tanto invocata privacy per confermarlo. Certo, anche le "figure
pubbliche" hanno diritto a un loro spazio di intimità, ma questa tutela è
garantita solo se le informazioni non hanno "alcun rilievo" per definire il
ruolo nella vita pubblica della persona interessata (articolo 6 del codice
deontologico sull´attività giornalistica in tema di privacy).
Proprio così´: "alcun rilievo". Non solo questa formula è netta, senza equivoci,
ma proprio l´attenzione della stampa internazionale è prova evidente
dell´esistenza di un interesse forte a conoscere, così come è clamoroso il fatto
che vi sia stata una cena "privata" tra il Presidente del Consiglio, il ministro
della Giustizia che ha dato il nome al famoso "lodo" e due tra i giudici che
dovranno valutare la costituzionalità della più personale tra le leggi ad
personam. Non si può invocare la privacy per interrompere il circuito
del controllo democratico.
Proviamo
di nuovo a dare un´occhiata alle regole, alle odiatissime regole. Qui troviamo
un´altra formula eloquente: "commensale abituale". Dobbiamo ritenere che questa
sia la condizione del Presidente del Consiglio, visto che il giudice
costituzionale invitante ha detto che quella cena non era la prima e non sarebbe
stata l´ultima. Gli implicati in questa vicenda protestano, dicendo che quella
situazione, che obbliga ogni altro magistrato ad astenersi quando abbia
frequentazioni della persona che deve giudicare, non è prevista per i giudici
costituzionali. Ma questo non vuol dire che i giudici della Consulta possano
fare i loro comodi. Proprio perché la loro funzione richiede indipendenza
assoluta da tutto e da tutti, sì che giustamente il Presidente della Repubblica
ha escluso la possibilità di un suo intervento, massimo deve essere il rigore
del loro comportamento. Non un meno, ma un più, rispetto agli altri giudici.
Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell´etica pubblica?
Proprio questi riferimenti sembrano scomparsi. Mentre la quotidiana attività
legislativa smantella pezzo a pezzo lo Stato costituzionale di diritto, negando
diritti fondamentali agli immigrati o dando in outsourcing a ronde
private l´essenziale compito della sicurezza pubblica (qui s´incontrano le
pulsioni della Lega e la concezione aziendalistica del Presidente del
Consiglio), è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo,
considerato un inciampo dal quale liberarsi.
Interviene qui la questione del moralismo, del quale in altri tempi ho scritto
un pubblico elogio e del quale torno a dichiararmi un fedele. Non voglio
nobilitare le miserie di questi tempi invocando la lettura di quelli che,
giustamente, vengono detti "moralisti classici". Registro due fatti. Il primo
riguarda l´uso italiano e inverecondo dell´esecrare il moralismo per liberarsi
della moralità. E´ una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire
solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi,
che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d´una politica senza respiro.
Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in
nome della moralità politica e dell´etica pubblica ha scosso le fondamenta d´un
potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d´opposizione
non riuscivano a scalfire. Lo conferma l´annuncio che il Presidente del
Consiglio vorrebbe compiere una "svolta personale". Ancora uno sforzo,
moralisti!
Stefano Rodotà Repubblica 10.7.09