L'ossessione della
sicurezza genera insicurezza
All’indomani del nuovo reato d’immigrazione clandestina, alla vigilia del
prossimo reato
d’intercettazione malandrina, resta in sospeso una domanda: quanti ancora
vogliamo sbatterne in
galera? Africani itineranti, giornalisti intraprendenti, e poi a seguire drogati
impenitenti,
automobilisti imprudenti, mendicanti e postulanti, perfino chi ha una casa da
affittare, se putacaso
sbaglia l’inquilino. Ma questa domanda se ne tira dietro una seconda: c’è
in Italia un pozzo così
largo e profondo da ospitare i rifiuti umani che gettiamo via dalla cucina?
No, non c’è. C’è piuttosto un intero paese chiuso a chiave dentro il Belpaese. È
grande quanto
L’Aquila prima del terremoto, supera la popolazione di Teramo e Rovigo, ha il
doppio d’abitanti
rispetto a Enna, Aosta, Nuoro, Belluno, ma non dispone degli stessi chilometri
quadrati. Vive in
stanze dove si fanno i turni per dormire, talvolta in compagnia di qualche topo,
talvolta sottoterra
come a Favignana. È il paese dei galeotti: 63.460 residenti a giugno, 70
mila entro il prossimo
dicembre, dato che le new entries sono mille al mese. Significa
due volte e mezzo la popolazione
carceraria del 1990, significa una cifra mai più raggiunta da quando Togliatti
nel 1946 firmò la
prima amnistia della Repubblica. Ma siccome la capienza dei nostri penitenziari
(peraltro spesso
fatiscenti) è di 43 mila posti, significa altresì che 20 mila detenuti sono in
soprannumero, con un
tasso d’affollamento che tocca il 160% in Lombardia, Friuli, Veneto, Sicilia,
nonché il 193% in
Emilia Romagna.
Questo trattamento da sardine in scatola pone in primo luogo una questione
di decenza, perché è
indecente trattare i carcerati peggio delle bestie, quando le sevizie agli
animali sono punite dalla
legge. Pone in secondo luogo una questione d’ordine, perché col caldo la
situazione finirà per
surriscaldarsi ulteriormente, mentre gli agenti penitenziari sono 5 mila meno
dell’organico. Pone in
terzo luogo una questione di legalità, che a propria volta si traduce
nell’offesa a tre principi
dichiarati dalla Carta. Primo: il «senso di umanità» cui deve
corrispondere la pena. Secondo: la
presunzione d’innocenza, che evidentemente non vale per quel 52% di detenuti in
attesa d’una
sentenza definitiva di condanna. Terzo: l’eguaglianza «senza distinzione di
razza», dato che la
carcerazione preventiva colpisce il 43% degli italiani, ma il 58% degli
extracomunitari. D’altronde
vorrà pur dire qualcosa se nelle ultime due settimane sia il Capo dello Stato,
sia il presidente della
Corte costituzionale hanno manifestato il loro allarme. E d’altronde perfino in
California - dove le
galere sono le più gonfie al mondo - nel febbraio scorso una Corte federale ha
imposto a
Schwarzenegger di liberare un terzo dei detenuti entro il prossimo triennio.
Sicché serve a ben poco baloccarsi con l’idea delle celle galleggianti, o
fantasticare su un piano
d’edilizia carceraria che aggiungerebbe 17 mila posti entro il 2012, come ha
promesso il governo a
inizio anno. Staremmo comunque sotto il necessario, e oltretutto fin qui ogni
nuovo carcere ci ha
messo non meno di 10 anni prima che gli operai togliessero il disturbo. Meglio,
molto meglio,
cancellare quel comma della legge Fini-Giovanardi sulle droghe che tiene dentro
il 40% dei
detenuti, perché non distingue fra consumo e spaccio. Meglio allargare le misure
alternative al
carcere, dato che nel 2008 la recidiva ha toccato soltanto lo 0,45% dei casi.
Meglio infine smetterla
con l’abuso dei delitti e delle pene. Anche perché, se diventiamo tutti
criminali potenziali, il
questurino o il giudice potrà mettere in galera chi gli sta meno simpatico. E
infine l’ossessione della
sicurezza avrà generato la più acuta insicurezza.
Michele Ainis La Stampa 4 luglio 2009