Quando il Vaticano diventò uno Stato (e cambiò anche l’Italia)

C’è in Europa uno Stato nel quale «non vi sono né libertà né diritti», il cui «assetto di monarchia
assoluta e la conseguente assenza di libertà depotenzia i diritti» derivati dalla volontà sovrana, nel
quale «non esiste praticamente il diritto di proprietà privata» e «l’iniziativa economica privata non è
ammessa» e che nella Costituzione attribuisce a una sola persona la pienezza del potere esecutivo,

legislativo e giudiziario: compie ottant’anni lunedì prossimo ed è Lo Stato della Città del Vaticano,
oggetto e titolo del volume che Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato
all’università di Perugia, manda in libreria a fine mese nella collana «Si governano così» del
Mulino; un’opera che pone molti utili interrogativi.
Le affermazioni di Clementi che ho preso dalle conclusioni del suo studio sono tecnicamente esatte:
ma sono anche talmente paradossali da far dubitare che per capire quello Stato di pochi chilometri
quadrati e il governo delle circa settecento persone che ne sono il «popolo», soggetto al romano
Pontefice, gli strumenti tecnico- giuridici siano più adeguati di quelli storici a cui pure Clementi fa
ricorso. Infatti, le sei leggi promulgate da Pio XI il 7 giugno 1929 (pubblicate sugli Acta apostolicae
sedis il giorno successivo) e che davano sostanza giuridica al nuovo Stato, realizzavano un disegno
tutto politico: sia da parte del fascismo che nella Conciliazione aveva trovato un apice
propagandistico (di cui un cammeo radiofonico inserito da Bellocchio nel suo splendido Vincere
dice già tutto) colto come tale da un cattolicesimo decerebratosi da sé; sia da parte di Pio XI che
voleva chiudere la questione romana (trascinata da ritardi d’ogni sorta, ora finalmente ricostruibili
nell’Archivio segreto vaticano) conferendo all’autorità del Papa quel minimo di corpo che ne
significasse l’indipendenza reale.

Ma normare quella minuscola temporalità richiedeva strumenti giudiziari, amministrativi, esecutivi,
legislativi che per l’appunto le sei leggi del 7 giugno 1929 di papa Ratti — redatte dal fratello del
futuro Pio XII, Francesco Pacelli, e da Federico Cammeo, il giurista israelita la cui famiglia
scomparve ad Auschwitz — iniziavano a porre. Clementi, che sui secoli precedenti commette
qualche svista, ricostruisce in modo efficace i numerosi aggiustamenti di quell’ordinamento rattiano
che si succedono fino a oggi con questioni che hanno agitato il dibattito giuridico-politico e anche il
linguaggio comune. Infatti, molti studiosi hanno sostenuto che lo Stato vaticano non facesse altro
che confermare la personalità internazionale della Santa Sede, cioè dell’insieme di funzioni nelle
quali si articola il governo della Chiesa universale; altri hanno invece contestato questa tesi (definita
tecnicamente «monista») sostenendo che il Trattato del 1929 e le leggi conseguenti davano vita ad
un soggetto autonomo, distinto dalla Santa Sede e con un proprio ordinamento che può essere, come
Clementi fa, staccato dai fini propri della Chiesa romana e guardato come complesso a sé di norme
in perpetua evoluzione.
Giacché, come accennavo, la legge fondamentale che istituiva lo Stato l’8 giugno 1929 fu soggetta
a integrazioni e riforme nel 1932-1939 e poi nel 1946, poi a cavallo delle riforme generali della
curia romana del 1968 e 1984, poi nel 1987, infine, dopo vari tentativi abortiti, con la nuova Costituzione
vaticana del 2001. E da ultimo con la legge LXXI di Benedetto XVI che dal 1˚ gennaio
scorso cancella l’automatica recezione della legislazione italiana nelle fonti del diritto vaticano (la
recezione per le leggi razziali avrebbe meritato una disamina che il volume non fa). Gli strumenti
per queste integrazioni e riforme sono stati diversi: la pubblicazione di un Codice di procedura
civile, l’istituzione di una Consulta, il ridimensionamento delle Commissioni, la metamorfosi del
Consigliere, e via dicendo. Le ragioni sono state molteplici: le modifiche all’assetto della curia e di
quel suo centro che è diventata la Segreteria di Stato, il nuovo Codice di diritto canonico, la
sensibilità «sindacale » di Giovanni Paolo II...
Ma il punto non sta nelle tecnicalità o nelle intenzioni di questi assetti variabili e variati. Non sta
nemmeno nell’impressionante sforzo spirituale con cui il papato — in primis e soprattutto con
Paolo VI — ha saputo leggere la mano della Provvidenza in quella spoliazione che altri suoi
predecessori avevano visto come una trama diabolica per togliere alla Chiesa il suo.
E non sta
nemmeno nelle differenze davvero apocalittiche fra la sovranità del Papa e questo potere statuale
che, come faceva il Trattato, rassicurava la Chiesa del fatto che l’Italia non si sarebbe macchiata di
«ingerenze » nelle funzioni degli enti centrali della Chiesa cattolica. Sta nel fatto che quel piccolo
Stato vaticano fa affiorare il meglio e il peggio della politica italiana: un «peggio» tutto genuflessioni
e baciamani, che raramente serve alla Chiesa e quasi mai allo Stato; un «meglio» che —
come dimostrò durante lo scandalo Ior il comportamento di Nino Andreatta, che Clementi non cita
mai — rende più degna la Repubblica e quando serve (allora serviva) salva la Chiesa da quella
malattia tremenda che è la menzogna.

Alberto Melloni      Corriere della Sera  4 giugno 2009