Vacuità della
politica
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio s’indigna per il
trattamento che gli
riservano i magistrati che lo processano, o i giornalisti che indagano sulla
spregiudicatezza con
cui mescola condotte private e pubbliche. S’indigna a tal punto che le due
figure - il
magistrato, il giornalista - sono equiparate a quella del delinquente: è
avvenuto giovedì
all’assemblea della Confesercenti. Le tre categorie sono assimilate a loro volta
all’opposizione
politica. Le accuse che vengono loro rivolte sono essenzialmente due. Primo,
l’offesa al popolo
sovrano, al consenso che esso ha dato alle urne e che imperturbato rinnova nei
sondaggi.
Secondo, la natura pretestuosa di tali attacchi antidemocratici: il primato dato
alla forma sulla
sostanza, ai problemi finti degli italiani su quelli veri, allo show sulla
realtà, al gossip sulla
politica del leader.
L’accusa va presa sul serio, perché il premier ha costruito il proprio
carisma sulla maestria
dello show e non ha concorrenti in materia. In particolare sa
abbandonarlo, se serve, e
presentare l’avversario come vero manipolatore della società dello spettacolo.
Come ha scritto
Carlo Galli, «il suo vero potere è sul linguaggio e sull’immaginario»: qui è
l’egemonia che dagli
Anni 80 esercita sul senso comune degli italiani, e che l’opposizione non ha
imparato a scalfire
(la Repubblica 25 maggio).
Ma qualcosa si va scheggiando, in questo perfetto potere
d’influenza, come accade agli
apprendisti stregoni che non dominano più interamente i golem fabbricati.
Il gossip, lo show, il privato che fagocita il pubblico, i
problemi veri semplificati fino a divenire
non-problemi, dunque falsi problemi: questi i golem, e tutti provengono
dalle officine del
berlusconismo. Sono la stoffa della sua ascesa, gli ingredienti della sua
egemonia culturale in
Italia. Quel che succede oggi è una nemesi: il problema finto divora quello
vero, show e gossip
colpiscono chi li ha messi sul trono. All’estero la condanna è dura. Non da
oggi, certo:
l’Economist lo giudicò «inadatto a governare» il 28 aprile 2001, sono
passati anni e Berlusconi
resta forte. Ma lo sguardo esterno stavolta s’accanisce, perché finzioni e
non-verità si
accumulano.
Il fatto è che nel frattempo il mondo è cambiato, attorno a lui. Berlusconi è
figlio di un’epoca di
vacuità della politica: il mercato la scavalcava impunemente, ignorando ogni
regola;
l’imprenditore-speculatore sembrava più lungimirante e realista del politico di
professione. Il
liberalismo dogmatico regnò per decenni, e Berlusconi fu una sua escrescenza. Ma
questo
mondo giace oggi davanti a noi, squassato dalla crisi divampata nel 2008. La
regola e la norma
tornano a essere importanti, il realismo dei boss della finanza è screditato, la
domanda di
politica cresce. È quel che Fini presagisce: senza dirlo si esercita in toni
presidenziali, conscio
del prestigio miracolosamente sopravvissuto del Colle. La crisi del 2007-2008 è
sfociata in
America nella sconfitta di Bush, ma quel che Pierluigi Bersani ha detto in una
recente
conferenza è verosimile: «Il capitalismo non finisce, ma finisce una fase ad
impronta liberista
della globalizzazione. E non finisce perché c’è Obama, ma c’è Obama perché
finisce».
Questo spiega come mai Berlusconi - a seguito della sentenza Mills che lo indica
come
corruttore di testimoni e della vicenda Noemi in cui appare come boss che
esibisce private
sregolatezze fino a sfidare il tabù della minorenne - irrita più che mai chi ci
guarda da fuori.
Un’irritazione che si accentua di fronte ai troppi nascondimenti della verità:
nel caso Mills la
verità di sentenze che non sono tutte di assoluzione ma anche di prescrizione o
assenza di
prove; nel caso Noemi la verità di incontri poco chiari. Non dimentichiamolo:
quando si
incolpano le bolle, finanziarie o politiche, è di menzogne e sortilegi che si
parla.
Quel che finisce, attorno a noi, è la negligenza dell’imperio
della legge, della rule of law. Non
tramonta solo il dogma del mercato onnisciente ma la figura del sovrano-boss,
eletto per stare
sopra le leggi, i magistrati, le costituzioni, le istituzioni. La
fusione tra il suo interesse-piacere
privato e il suo agire pubblico diventa un male non più minore ma maggiore,
perché nelle
democrazie c’è sete di regole e istituzioni, dopo lo sfascio, e non di favole
ottimiste ma di
realtà e verità. C’è bisogno di gesti fattivi e antiburocratici come la presenza
in Abruzzo o a
Napoli sui rifiuti, ma c’è anche bisogno di cose che durino più di una
legislatura e non siano
bolle. È utile osservare l’America, oggi: l’immenso sforzo pedagogico che
sta compiendo
Obama, per convincere i cittadini che il breve termine è letale, che la
Costituzione e le norme
devono durare più dei politici.
Deve poter durare il sistema di checks and balances innanzitutto:
l’equilibrio tra poteri
egualmente forti e indipendenti. Il presidente americano sta riconquistando
l’egemonia della
parola, con linguaggio semplice e vera passione pedagogica. Il suo discorso su
Guantanamo e
terrorismo, il 21 maggio, lo conferma: «Nel nostro sistema di pesi e
contrappesi, ci deve
essere sempre qualcuno che controlli il controllore. \ Tratterò sempre il
Congresso e la giustizia
come rami del governo di eguale rango». Berlusconi va oggi
controcorrente: all’estero non ha
altra sponda se non quella di Putin, figura tipica di politico-boss.
Tuttavia la società italiana gli crede ancora, e questo consenso varrà la pena
studiarlo, con la
stessa umile immedesimazione mostrata da Obama. Varrà la pena studiare
perché gli italiani
somigliano tanto ai russi, come se anch’essi avessero alle spalle regimi
disastrosi. Perché tanta
sfiducia verso le regole, lo Stato, la res publica. Non esiste una congenita
debolezza morale
degli italiani, e dunque occorre capire come mai la politica è così
profondamente sprezzata, il
conflitto così radicalmente temuto. La tesi esposta più di vent’anni fa
dallo studioso Carlo
Marletti è tuttora valida: è vero che da noi esiste un «eccesso di pluralismo e
complessità che
le istituzioni legali non semplificano» adeguatamente. E che al loro posto si
sono installate
auto-organizzazioni informali, claniche o familiste, che non sono
arcaiche ma si sono adattate
alla modernità meglio di altre. Marletti spiega come lo sviluppo industriale si
sia mescolato alla
criminalità organizzata e come si siano creati, in assenza di uno Stato che
semplifichi la
complessità, meccanismi di semplificazione sostitutivi,
solidaristico-clientelari, «di tipo nero o
sommerso» (Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984).
Berlusconi prometteva questa fuga nella semplificazione deviante, meno
ingarbugliata che ai
tempi della Dc. Secondo il filosofo Václav Belohradsky, essa è basata sul
prevalere dei fini
personali o corporativi sui mezzi che sono le norme prescritte a chi vuol
realizzare tali fini. Tra i
due elementi è saltata ogni coerenza ed è il motivo per cui l’Italia vive nell’anomia
sociale,
come fosse fuori-legge.
In Italia accade questo: le mete del singolo sono tutto, le norme nulla.
La legalità vale per gli
altri (i clandestini), non per noi, scrive Carlo Galli. Per noi le leggi sono
d’impedimento: quelle
italiane e anche quelle dell’Unione Europea, come ha ripetuto Berlusconi alla
Confesercenti.
L’opposizione potrebbe ripartire da qui: dalle norme pericolosamente sprezzate,
dall’Europa
che il governo finge di poter aggirare senza rischi, dalla sovranità nazionale
che esso finge di
possedere, a cominciare dal clima. La commistione privato-pubblico ha condotto a
tutto
questo, non è solo la storia di un padre, di una moglie mortificata, dei loro
figli. I più
preveggenti dicono: dopo la crisi il mondo non sarà più eguale. Berlusconi
promette di
conservarlo: anche questo è bolla, ed è spinta rivoluzionaria che si sta
esaurendo.
Barbara Spinelli La Stampa 31/5/2009