Il riconoscimento delle radici cristiane, richiesto con tanta insistenza dagli ultimi due pontefici, è con tutta evidenza finalizzato a un obiettivo: quello di fare di un’unica religione l’elemento caratterizzante dell’identità europea. Poco noto è invece il ruolo particolarissimo che in tale progetto di riconquista confessionale occupa l’Italia.
Già nel medioevo, infatti, il nostro Paese era oggetto delle speciali
cure dei pontefici: Innocenzo III, ad esempio, dopo avere affermato che
“il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria
dignità, e quanto più è con essa a contatto di tanto maggior luce si
adorna, e quanto più ne è distante tanto meno acquista in splendore”
rilevava che “ambedue questi poteri hanno avuto collocata la sede del
loro primato in Italia, il quale paese quindi ottenne la precedenza su
ogni altro per divina disposizione. E perciò, se pure noi dobbiamo
estendere l'attenzione della nostra provvidenza a tutte le province,
tuttavia dobbiamo con particolare e paterna sollecitudine provvedere
all'Italia, dove furono poste le fondamenta della religione cristiana e
dove l'eccellenza del sacerdozio e della dignità si esalta con la
supremazia della Santa Sede”(Sicut universitatis conditor,
30/10/1198).
Del fato che l’Italia occupi un posto tutto speciale nei disegni della
Provvidenza è convinto anche Giovanni Paolo II: “Il popolo italiano è
destinatario e custode privilegiato dell’eredità degli apostoli Pietro e
Paolo: un’eredità squisitamente spirituale, vale a dire culturale,
morale e religiosa insieme” (Allocuzione di Giovanni Paolo II al
Quirinale, 18/1/1986). Da questa premessa discende il ruolo decisivo
dell’Italia nella strategia vaticana. In forza di questo privilegio,
infatti, gli Italiani sono chiamati, anche se la cosa a molti era
sfuggita, a una vera e propria missione: “l’Italia come nazione ha
moltissimo da offrire a tutta l’Europa [...] All’Italia, in conformità
alla sua storia, è affidato in special modo il compito di difendere per
tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma
dagli apostoli Pietro e Paolo”(Lettera di Giovanni Paolo II ai
vescovi italiani, 6/1/1994).
Missione che non i cattolici italiani ma, si badi bene, il popolo
italiano nel suo insieme può assolvere perché esso - ne è sicuro
Benedetto XVI - è ancora oggi legato alle sue radici cattoliche: “in
Italia la fede è viva e profondamente radicata [...] La fede cattolica e
la presenza della Chiesa rimangono [...] il grande fattore unificante di
questa amata Nazione ed un prezioso serbatoio di energie morali per il
suo futuro” (Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai partecipanti
all’Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana,
24/5/2007).
L’idea che gli italiani siano per definizione un popolo cattolico,
autorevolmente ribadita in un mondo tanto diverso da quello medioevale,
potrebbe sembrare una bizzarria di papi di origine straniera che ci
conoscono poco, ma non è così: al contrario, nell’ambiente ecclesiastico
italiano dell’ultimo secolo la nostra ‘cattolicità’ è un dato
praticamente scontato. Il francescano padre Gemelli, per esempio, nel
1939 affermava che “Non può non essere riconosciuto che la tradizione e
la missione del popolo italiano sono essenzialmente cattoliche, tanto
che la italiana è la gens catholica per eccellenza”(A. Gemelli,
Introduzione, in AA. VV., Chiesa e Stato. Studi storici e
giuridici per il decennale della Conciliazione tra la Santa Sede e
l’Italia, Milano 1939, I, p X).
Il gesuita padre Lombardi, traendo da tale impostazione la logica
conseguenza, non temeva di esagerare proclamando che “essere buon
italiano contiene anche l’essere cattolico; essere anticattolico
contiene per noi l’essere traditore della Patria”(R. Lombardi, L’ora
presente e l’Italia, in La civiltà cattolica, 1/1/1947, p
22). Più recentemente l’arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale
Biffi, invitava, pur con un linguaggio politicamente appena un po’ meno
scorretto, a non dimenticare che “il cattolicesimo – che non è più la
‘religione ufficiale dello Stato’ – rimane nondimeno la ‘religione
storica’ della nazione italiana, oltre che la fonte della sua identità e
l’ispirazione determinante delle nostre più autentiche grandezze”(G.
Biffi, La città di Petronio nel terzo millennio, in Il Regno
Documenti, 2000, p 550).
Ragionevoli dubbi
Ora, che la chiesa cattolica abbia influenzato per secoli la vita, la
mentalità, la cultura della maggioranza degli Italiani è un fatto
innegabile ma affermare che il cattolicesimo sia l’elemento che
caratterizza il popolo italiano sembra francamente eccessivo. Gli
Italiani, e oggi sono milioni, che rifiutano di fatto lo stile di vita
proposto dal Vaticano o che consapevolmente lo contestano possono essere
ancora considerati estranei alla comunità nazionale o addirittura, come
diceva padre Lombardi, dei traditori?
Inoltre, un’influenza storica, per quanto duratura, può marchiare per
sempre, indelebilmente, l’identità di un popolo? È vero, al contrario,
che i fenomeni storici hanno, come è ovvio, un inizio e una fine, e
quando una civiltà decade alcuni elementi di essa sopravvivono dando
vita a nuove sintesi culturali. Così la religione pagana, che aveva
plasmato per secoli la vita dei popoli italici, è stata sostituita dal
cristianesimo, e non si può escludere che quest’ultimo possa subire una
sorte simile. Per quale ragione si dovrebbe allora affermare che gli
italiani che già oggi non si sentono custodi dell’eredità di Pietro e
Paolo, almeno nella forma proposta dal magistero, stiano rinnegando,
come vorrebbe il cardinale Biffi, la propria identità?
Ma una questione ancora più radicale sembra ineludibile: quali sono le
caratteristiche che, per usare l’espressione di padre Gemelli,
consentono di identificare il popolo italiano come ‘la gens catholica
per eccellenza’? Il numero dei battezzati? La frequenza alla messa
domenicale? La conformità alla morale tradizionale, specialmente in
campo sessuale? L’obbedienza al papa? A prescindere dal fatto che la
pratica sacramentale ha conosciuto negli ultimi anni un vero e proprio
crollo e dalla constatazione che la maggioranza degli Italiani da tempo
non è in sintonia col magistero romano in tema di divorzio, aborto,
coppie di fatto, omosessualità..., si può davvero identificare il
seguace di Gesù di Nazareth da questi elementi?
Per definire un popolo come ‘cattolico’, ovviamente al di là delle
scelte individuali infinitamente varie, bisognerebbe piuttosto esaminare
alla luce del vangelo il suo stile di vita, il modo di sentire e di
agire, quello che, con Scoppola, potremmo chiamare il ‘tessuto etico’ di
una nazione, cioè “la sedimentazione spontanea dell’esperienza morale,
legata certo alla coscienza individuale, ma che qui interessa in quanto
si proietta sulla vita civile ed è perciò premessa naturale del senso di
appartenenza alla comunità, di identità collettiva, e in definitiva del
senso della cittadinanza”(P. Scoppola, Tessuto etico, forze
politiche, istituzioni, in A. Giovagnoli, Interpretazioni della
Repubblica, Bologna 1998, p 17). Se ci si pone in quest’ottica, la
tesi della ‘cattolicità’ del popolo italiano appare in realtà piuttosto
dubbia, tanto è vero che, già nell’Ottocento e ancor prima della
formazione dello Stato unitario, essa trovava, accanto ai sostenitori,
anche avversari che addirittura attribuivano alla chiesa la
responsabilità dei difetti degli Italiani.
Un po’ di storia
Uno storico svizzero, il Sismondi, nella Storia delle repubbliche
italiane del Medioevo (prima edizione 1807-09, seconda edizione
ampliata 1809-18) accusa, per esempio, proprio la chiesa della
Controriforma - decisa a riaffermare la propria autorità, messa in
discussione dalla rivolta di Lutero, e sempre più ostile al libero
confronto delle idee - di avere ostacolato lo sviluppo civile e morale
degli Italiani, abituandoli al conformismo, all’ipocrisia e al
servilismo, sicché mentre “non c’è in Europa un popolo che sia più
costantemente occupato nelle pratiche religiose [...] non ce n’è uno che
osservi meno i doveri e le virtù che prescrive quel cristianesimo al
quale sembra così attaccato”(vol. XVI, cap. 127).
Per confutare la tesi del Sismondi, il Manzoni, pubblica già nel 1819 la
prima parte delle sue Osservazioni sulla morale cattolica, in cui si
sofferma, più che sui difetti degli Italiani, sulla sublime purezza
della morale evangelica, che la chiesa cattolica ha il merito di
insegnare anche al più semplice dei fedeli: l’immoralità e gli abusi non
dipendono quindi dall’insegnamento cattolico, “il quale li denunzia e li
combatte, e gli avrebbe levati di mezzo affatto e per sempre, se l’uomo
non avesse il terribile potere d’alterare a sé stesso la verità, e di
piegar le dottrine alle passioni. E abbiamo visto che gli abusi [...]
vengono da queste cagioni, umane pur troppo e non italiane”(cap. 19).
Se il Manzoni attribuisce agli Italiani sostanzialmente gli stessi pregi
e gli stessi difetti degli altri popoli, il Gioberti va ben oltre:
nell’opera Del primato morale e civile degli Italiani del 1843,
sostiene che il popolo italiano può vantare un’innegabile superiorità
sugli altri popoli per il semplice fatto che il papa ha la sua sede in
Italia, sicché “più vicini, più pronti, più immediati, più continui sono
gli influssi della sua parola [...] Tanto che gli Italiani, umanamente
parlando, sono i Leviti della cristianità, essendo stati prescelti dalla
Provvidenza ad aver fra loro il pontificato cristiano”(Torino 1920, p
50). Quindi gli Italiani – proprio loro che se ci fossero state le
statistiche dell’OCSE si sarebbero classificati agli ultimi posti tra i
Paesi più sviluppati – sarebbero chiamati a contribuire alla
civilizzazione degli altri Europei essendo un popolo eletto, una nazione
sacerdotale il cui genio è stato plasmato dal papato, con la
conseguenza, che al Gioberti sembra ovvia, che se è possibile essere
cattolici senza essere italiani non è possibile essere perfettamente
italiani senza essere cattolici.
Il Leopardi, al contrario, nel Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degl’Italiani (composto nel 1824 ma pubblicato postumo nel
1906), descrive una società priva di profonde convinzioni morali: la
dolcezza del clima induce gli Italiani a vivere all’aperto, in
un’atmosfera di allegra superficialità, certo poco adatta al silenzio e
alla riflessione; la loro religiosità è fatta di riti e di credulità più
che di vita interiore; l’ambito dei loro interessi è spesso ristretto
alla famiglia mentre lo Stato è percepito come una realtà estranea se
non addirittura ostile. Causa ed effetto a un tempo di questo vuoto di
valori è la mancanza di una classe dirigente capace non solo di
riconoscersi in regole condivise ma anche di imporle, con la propria
autorevolezza, all’intera nazione, in modo che chiunque non le rispetti
venga immediatamente messo ai margini della società. Da qui l’amara
conclusione: “Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte
le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico
di tutti i popolacci”.
Cattolici D.O.C.?
Sarebbe certamente sbagliato ricordare solo gli aspetti negativi del
carattere degli Italiani come sarebbe indizio di faziosità attribuirne
tutta la responsabilità alla chiesa cattolica. Sui nostri pregi –
simpatia, creatività, duttilità, spirito d’iniziativa, fantasia, buon
gusto – non mi pare tuttavia il caso di insistere: ne siamo già
abbastanza fieri e del resto hanno poco a che fare con l’etica. È
inevitabile invece concentrare l’attenzione sugli standard di
moralità del popolo italiano per vedere se siano quelli che sarebbe
lecito attendersi da una gens catholica.
Da questo punto di vista, il giudizio ottimistico dei sostenitori della
‘cattolicità’ degli Italiani appare poco fondato perché, con ammirevole
costanza dall’Ottocento ad oggi, essi ignorano pervicacemente la realtà
effettiva. Le osservazioni del Manzoni, infatti, non centrano
l’argomento, perchè in discussione non è l’ideale evangelico ma la
moralità vissuta del popolo italiano, spesso in stridente contrasto con
quell’ideale. E forse è solo in virtù della sua mentalità platonizzante
e della fiducia in un possibile aggiornamento dottrinale della chiesa
romana che il Gioberti può attribuire agli Italiani una superiorità
civile e morale per il fatto che su di loro ‘più continui sono gli
influssi’ della parola del papa: non le idee debbono tener conto della
realtà ma questa deve adeguarsi alla sua tesi precostituita; dalla
premessa si ricava infatti la conclusione senza preoccuparsi minimamente
di verificarla: visto che il papato ha la sua sede a Roma, gli Italiani
ne risentiranno certamente l’influenza più di altri. E Giovanni Paolo II
non fa che riprendere la sostanza, se non il linguaggio, di Gioberti:
non parla più di un primato morale del popolo italiano ma ne fa l’erede
privilegiato di Pietro e di Paolo, con buona pace delle più recenti
indagini empiriche che mostrano come quell’eredità sia stata da tempo
dilapidata.
Ben fondati su un’attenta osservazione della realtà e più che mai
attuali appaiono invece i giudizi di coloro che, come il Sismondi e il
Leopardi, esprimono forti riserve sulla moralità degli Italiani; anzi
negli ultimi decenni mi pare che si siano rafforzate le nostre peggiori
abitudini: conformismo, superficialità, servilismo, ipocrisia,
cinismo... Se occorre evitare ingiustificate generalizzazioni e giudizi
stereotipati, non è però possibile chiudere gli occhi su difetti
ricorrenti e facilmente documentabili.
A cominciare dalla diffusione dell’illegalità: insofferenza del
cittadino medio per le regole del vivere civile, evasione fiscale a
livelli patologici, criminalità organizzata che certamente sarebbe stata
da tempo sconfitta se non fosse tollerata da una parte almeno della
società e non godesse della connivenza di non piccoli settori del mondo
politico. Più dell’illegalità dà fastidio la denuncia di essa. E in
effetti i reati spesso non vengono puniti adeguatamente: condoni,
indulti e amnistie sono frutto di un radicato ‘perdonismo’ mentre chi
chiede l’applicazione delle sanzioni è subito accusato di ‘giustizialismo’.
La scarsa sensibilità morale si manifesta poi nell’ipocrita professione
di valori che vengono di fatto regolarmente disattesi: da qui i
frequenti scandali che scoppiano nel nostro Paese, specialmente quando
chi si atteggia a difensore della famiglia viene sorpreso in avventure
boccaccesche. La situazione, semmai, è ulteriormente peggiorata negli
ultimi anni dal momento che la corruzione, l’uso delle tangenti, i
concorsi truccati, il familismo amorale, il darwinismo sociale, le
manifestazioni di xenofobia e di razzismo non suscitano più alcuna
indignazione: vengono eletti in parlamento e ricoprono cariche
istituzionali personaggi che in altri Paesi europei nessun partito si
sognerebbe di candidare, e mafiosi condannati con sentenza definitiva
sono addirittura presentati come eroi mentre chi spezza il vincolo della
complicità viene messo al bando dal suo ambiente.
I principi democratici non sembrano particolarmente cari alla
maggioranza degli Italiani: siamo arrivati tardi alla democrazia, dopo
aver dato i natali a un regime dittatoriale che ha fatto scuola in
Europa, e pare che continuiamo ad avere fiducia negli uomini forti, nei
salvatori che possono risolvere, da soli, problemi la cui soluzione
sarebbe in realtà faticoso compito dei cittadini. Valori civili di
sicura rilevanza etica come la libertà di coscienza, il pluralismo
dell’informazione, il principio di laicità, la parità uomo-donna, il
rispetto dei diritti delle minoranze... non sembrano suscitare grandi
passioni.
La mancanza di senso dello Stato induce a puntare sulla furbizia per
cavarsela in una società avvertita come estranea ai propri interessi.
Maestri nell’arte del trasformismo, cerchiamo di stare sempre dalla
parte del più forte, di chi può elargire privilegi e prebende, godendo
così dei vantaggi che il clientelismo assicura a danno della massa dei
senza potere. Le ultime statistiche dicono che l’Italia è uno dei Paesi
europei in cui è più accentuata la distanza tra ricchi e poveri, ma
demandiamo la soluzione della questione alla generosità di coloro che si
occupano di volontariato: a cambiare i criteri di distribuzione della
ricchezza, la minoranza dei privilegiati non ci pensa nemmeno. La
maggioranza degli sfruttati, da parte sua, pare incapace di ribellarsi
al potere con modalità mature e nonviolente: un’obbedienza passiva e una
sottomissione infantile all’autorità sembrano tra le nostre
caratteristiche più radicate.
L’interesse per la cultura, poi, è piuttosto modesto: gli Italiani sono
ai primi posti nelle classifiche europee per il numero di ore trascorse
davanti al televisore e agli ultimi posti per la lettura di libri e
giornali. È evidente che il mezzo televisivo non è il più adatto per
favorire la riflessione e l’approfondimento dei problemi, sicché
superficialità e approssimazione sono una nostra caratteristica. Da qui
l’accettazione acritica delle idee correnti, anche se non fondate su
argomentazioni razionali e addirittura in contrasto con dati scientifici
ampiamente acquisiti: è noto, del resto, che i risultati degli studenti
italiani nelle discipline scientifiche non sono brillanti, mentre per
fatturato di maghi e astrologi siamo ai primi posti in Europa. Il nostro
scarso apprezzamento per gli intellettuali è attestato tra l’altro
dall’indifferenza che circonda premi Nobel come Fo, Dulbecco, Rubbia o
Levi Montalcini.
O cattolici per legge?
Se queste sono le caratteristiche dell’italiano medio, delle due l’una:
le gerarchie ecclesiastiche o non conoscono il loro popolo o non
prendono troppo sul serio il vangelo! Non si può proprio dire, infatti,
che la vita della maggioranza degli Italiani tenti di ispirarsi al
messaggio delle Beatitudini e che si segnali per l’umile desiderio di
mettere in pratica quell’amore dei nemici a cui sono chiamati i
discepoli di Gesù: “Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri
nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi
maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote
sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non
rifiutare la tunica”(Luca 6, 27-29).
Papi e vescovi farebbero bene quindi a dichiarare esplicitamente che
ritengono impraticabile l’ethos del vangelo o in alternativa,
abbandonando il cliché della gens catholica, a sottoporsi
a un severo esame di coscienza. Dopo un insediamento di secoli nella
penisola italiana, disponendo di risorse spirituali e materiali
invidiabili, di fronte a un quadro così desolante non dovrebbero
interrogarsi sulle proprie responsabilità? La regola vigente in Vaticano
pare che sia invece, oggi più che mai, quella di ignorare la realtà.
Tanto più significativa perciò l’eccezione dell’arcivescovo di Milano,
il cardinale Montini, che nel 1958 affermava: “È ancora diffuso da noi
il detto che l’Italia è un paese cattolico, perché, per fortuna, la
grande maggioranza dei suoi abitanti riceve ancora il battesimo; ma non
si riflette abbastanza a quanti non vivono in conformità alla dignità e
all’impegno morale che il battesimo porta con sé [...] dobbiamo
riconoscere che grandissima parte dei nostri fedeli sono infedeli; che
il numero dei lontani supera quello dei vicini e che il raggio
pastorale, in molte parti, va gradatamente restringendosi”(G. B. Montini,
La carità della Chiesa verso i lontani, in Discorsi su la
Chiesa (1957-1962), Milano 1962, p 54).
Negli anni del post-concilio la chiesa italiana, guidata da uomini
vicini a Montini, divenuto papa Paolo VI, tentò un rinnovamento della
pastorale sulla base della consapevolezza che in Italia i cattolici
erano minoranza, tanto che in un documento della CEI del 1975 si
affermava esplicitamente: “Non sembri quindi eccessivo dire che l’Italia
è un paese da evangelizzare” (Evangelizzazione e promozione umana,
in Enchiridion Cei, Bologna 1985, II, p 684).
Il tentativo di trasformare il cattolicesimo italiano, incoraggiando il
passaggio da un tradizionalismo ritualista a un’accettazione consapevole
e matura del messaggio evangelico, da tradurre in coerenti comportamenti
morali, non ebbe grande successo, sicché a pochi mesi dalla morte Paolo
VI chiudeva il suo pontificato con questa domanda angosciata: “Dov’è mai
il popolo credente, non solo fedele nell’osservanza di qualche precetto,
ma nutrito, ma vivente, ma gaudioso di credere, di pregare e di
confessare a Cristo un amore forte e capace di portare con lui la
Croce?” (Discorso alla Cei del 24/5/1978, in Insegnamenti di
Paolo VI, Roma 1979, p 390).
Per fronteggiare una situazione sempre più critica gli ultimi due
pontefici, abbandonando una strategia che appariva fallimentare, sono
tornati alla vecchia prassi. Angosciati per la condizione di marginalità
che occupano i valori religiosi nella società europea, ma poco fiduciosi
nella via lunga e faticosa della libera formazione delle coscienze,
hanno scelto di preservare i costumi tradizionali puntando sulla
proibizione, imposta per legge, di comportamenti condannati come
contrari non solo agli insegnamenti della chiesa ma pure alla natura
dell’uomo.
E così, in Italia più che mai, se ci si rassegna al fatto che l’adesione
di fede appartiene solo a una minoranza, ci si batte senza esclusione di
colpi per salvare il cattolicesimo almeno come tradizione di popolo. E
ciò a tutti i costi: anche a costo di allearsi con i partiti più
reazionari e con i governi più impresentabili, purché siano disposti,
con la forza della legge, a mantenere in vigore i costumi tradizionali.
Il prezzo da pagare può sembrare alto: si tace, per esempio, sulla
corruzione dilagante tra politici che pure si dicono cristiani, o si
formulano critiche molto blande di fronte a leggi di indubbio sapore
xenofobo, o addirittura si arriva ad esprimere apprezzamento per
dottrine un tempo condannate senza appello. Clamoroso l’episodio della
lettera (Corriere della sera 23/11/08) indirizzata da Benedetto
XVI a uno studioso che si dichiara non credente, Marcello Pera, con cui
il papa lo elogia perché in un suo scritto “analizza l’essenza del
liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del
liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di
Dio”. Peccato che di questo costitutivo legame tra liberalismo e
cristianesimo, quando era sostenuto da uno studioso credente come il
Lamennais, non si fosse accorto un altro papa, Gregorio XVI, che anzi
nell’enciclica Mirari vos del 1832 aveva considerato le
rivendicazioni liberali semplicemente incompatibili col cattolicesimo!
Ma si tratta, in fondo, di costi accettabili se confrontati con i
vantaggi che ne conseguono: esenzioni fiscali, finanziamenti alla scuola
cattolica, spazio esorbitante per sceneggiati televisivi a carattere
religioso... Del resto, è il solo modo per conservare all’Italia
l’etichetta di nazione cattolica e metterla in condizione di svolgere
l’importante compito di difendere in Europa quei valori che la chiesa
romana considera essenziali, nella speranza di riconquistare un’egemonia
culturale a livello europeo. Proprio con questa missione assegnata
all’Italia si spiegano, a mio parere, i numerosi non possumus,
talvolta estremamente impopolari, pronunciati dalle gerarchie
ecclesiastiche nelle occasioni più svariate: dalle proposte legislative
del governo Prodi sulle coppie di fatto alla ricerca sulle cellule
staminali, dal caso Welby alla vicenda Englaro. In gioco, infatti, non è
una singola questione ma tutta una strategia: se non riuscisse a
mantenere la sua egemonia in Italia, come il Vaticano potrebbe sperare
di svolgere un ruolo di primo piano in Europa?
Nazione cattolica o clericale?
Si tratta di una strategia vincente? Forse no per quanto riguarda la
missione europea: è difficile, infatti, credere che un’Italia
portabandiera di un cattolicesimo così oscurantista possa trovare
ascolto in società decisamente più aperte della nostra alla modernità,
svolgendo con successo il compito, assegnatole da Giovanni Paolo II, ‘di
difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale
innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo’. Ma - questa è la dura
realtà - strategia vincente di sicuro in Italia, almeno per il momento e
grazie alla scarsa reattività di un mondo laico sempre più minoritario.
Vincente, però, solo se giudicata dal punto di vista dell’efficacia
politica. Molti Italiani, infatti, sembrano assuefatti alle continue
interferenze del Vaticano sull’attività parlamentare, non criticano i
crescenti privilegi concessi dai governi alla chiesa romana e meno che
mai protestano contro la pretesa di individuare nel cattolicesimo
l’identità della loro nazione. Identità che in un Paese moderno dovrebbe
dipendere piuttosto, per citare ancora il cattolico Scoppola, “dalla
consapevolezza vissuta dei cittadini di essere titolari di diritti e di
doveri nei confronti della comunità sulla base di valori comuni,
condivisi, che sono quelli espressi dalla Costituzione” (op. cit.,
p 23).
Dal punto di vista evangelico, invece, è certamente una strategia
perdente, perché in contrasto con l’invito all’impegno per la
costruzione del regno di Dio, che esige la conversione del cuore e,
perciò, la libera risposta dell’uomo. Non si può essere credenti per
legge: e per rendere cristiana una società non bastano certo le
cerimonie liturgiche avulse dalla vita (“Non chiunque mi dice: Signore,
Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del
Padre mio”[Matteo 7,21]), né il rispetto di norme arcaiche e
oppressive (“Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il
sabato!”[Marco 2,27]), né la sottomissione a gerarchie
ecclesiastiche che chiedono di prestar fede ad arbitrarie elaborazioni
teologiche (“annullando così la parola di Dio con la tradizione che
avete tramandato voi”[Marco 7,13]).
Forse quindi il popolo italiano è stato per secoli, tranne rare
eccezioni, ed è, più che il custode privilegiato del messaggio
evangelico, la vittima predestinata di una strategia vaticana che,
rinunciando alla testimonianza evangelica, si accontenta di una società
clericale. Gli Italiani, infatti, hanno subito conseguenze negative su
due piani. Danneggiati da un punto di vista civile, perchè al fine di
mantenere la sua egemonia il Vaticano si è di solito alleato con le
forze politiche più ostili a ogni rinnovamento, costituendo, come
scriveva Gramsci, “la più grande forza reazionaria esistente in Italia,
forza tanto più temibile in quanto insidiosa e inafferrabile”(A. Gramsci,
La Correspandance Internationale, 12/3/1924).
Ma danneggiati anche da un punto di vista religioso, perché, come aveva
notato già Machiavelli, proprio a causa dei comportamenti della chiesa
romana l’Italia “ha perduto ogni divozione e ogni religione [...].
Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo
obbligo: di essere diventati sanza religione e cattivi” (N. Machiavelli,
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 12).
Elio Rindone www.italialaica.it (8-5-2009)