Questo è quanto don Andrea Santoro scrisse per il primo numero di Aesse del
2005, poco dopo la devastazione dello “tsunami” nel sud-est asiatico. Gli
chiedemmo una riflessione sul senso della vita e della morte, sulla presenza di
Dio nella sofferenza dell’uomo e sulle responsabilità dell’uomo stesso di fronte
a quel cataclisma.
Oggi, dopo quando accadutogli in Turchia, questo articolo ci appare una
testimonianza splendente del suo modo di essere uomo e cristiano, pur nel
nascondimento di una missione ignota ai più. Il migliore omaggio che possiamo
rivolgergli.
Grazie, don Andrea.
“Dov’era Dio?”. Molti se lo sono chiesti davanti alla tragedia del
sud-est asiatico. È una domanda seria. Una domanda che ci facciamo
quotidianamente davanti a sofferenze di ogni tipo. Una domanda spesso sommessa,
segreta, non gridata ma sofferta silenziosamente nell’intimo. Due risposte mi
vengono in mente. La prima: “Non credo in Dio perché tutto va bene, ma
siccome credo in Dio credo che in tutto c’è un bene nascosto che prima o poi
verrà a galla”. “Non credo in Dio perché lo vedo ma siccome credo in Dio lo vedo
sempre misteriosamente all’opera. Solo attendo di capirlo”. La seconda
risposta: chiedere a Dio, davanti al dolore, dove si trova non è una
bestemmia ma una preghiera, una legittima richiesta di un uomo piccolo davanti a
un Dio troppo grande. La preghiera non è un’invocazione astratta ma la presenza
concreta di tutto il nostro essere davanti a Dio, l’offerta di me a lui così
come sono. Il mio urlo, il mio pianto, la mia imprecazione, il mio dubbio, il
mio vuoto interiore, il mio peccato che mi umilia, l’ingiustizia che mi calpesta
sono la mia preghiera. Li pongo davanti a Lui come li vivo. A Dio si può dire
tutto, perché la preghiera è il mio vissuto e la fede è gettarmi addosso a Lui
con tutto il mio peso. Nella Bibbia si legge: “Fino a quando Signore
continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?”.
DiciamoGli dunque: dove sei? PuntiamoGli pure il dito addosso in un
impeto di collera e di dolore, ma poi stringiamoci addosso a Lui e
facciamoci portare: questo fa la differenza.
C’è una terza risposta, la più difficile e la più complessa, quella che
maggiormente piega la nostra sicurezza, spiazza le nostre logiche più razionali,
spezza il nostro orgoglio, la nostra illusione di dominare il mondo, la nostra
pretesa di uomini giusti. La risposta è: dietro ad ogni tragedia c’è una
tragedia più profonda che coinvolge l’universo intero. Una tragedia le
cui radici sono nascoste e antiche ma i cui frutti amari sono di ogni tempo e
ben visibili. Questa tragedia si chiama peccato e la si può
paragonare, per capirla, a un’infezione nascosta che dà come sintomi convulsioni
e attacchi di febbre altissima che stremano l’organismo e lo portano ogni volta
sull’orlo del collasso e della morte. Il mondo, dice la Bibbia, è in preda al
dolore e alla morte perché è in preda al peccato, non il mio o il tuo ma quello
“nostro”, quello che passa di padre in figlio a partire dal primo “no”
orgoglioso che si è annidato in noi come una malattia ereditaria: “grazie no,
Dio! Non ho bisogno di te.Se tu ci sei, fai ombra alla mia libertà, perciò se
devo esistere io, devi sparire tu”.
Come l’uomo (il singolo come ogni comunità e ogni popolo) conosce gli attacchi
distruttivi dell’ira, della gelosia, dell’invidia, della superbia, dell’egoismo,
dello spirito di possesso, della sensualità, del culto del denaro e
dell’apparenza, così la natura creata conosce attacchi ciechi e distruttivi, lo
scatenarsi di forze incontrollabili che si abbattono all’improvviso, magari dopo
aver covato a lungo, e seminano morte. Come non c’è sempre amicizia tra uomo e
uomo, tra popolo e popolo, anzi una strana inimicizia e rivalità, così non c’è
sempre amicizia tra uomo e natura, anzi spesso ostilità e guerra vera e propria.
L’immagine di una natura idilliaca e di un uomo “buono” all’interno di essa, è
falsa. Dio non c’entra perché Dio all’inizio, come dice la Scrittura, “ha fatto
bene ogni cosa”. C’entra il peccato che ha portato fuori centro l’asse dell’uomo
e lo ha fatto impazzire. La creazione, casa dell’uomo, è rimasta sconvolta dal
suo peccato come lo resterebbe una casa in preda a un pazzo. È stata sottomessa,
senza sua volontà, alla caducità e al disordine e si è rivoltata contro l’uomo.
È come impazzita essa stessa. Dio, per amore di libertà, ha lasciato spazio al
peccato e alla morte che ne è il frutto e i cui segni sono evidenti tanto
nell’uomo che nella natura. Ma Dio, per amore dell’uomo, non lo abbandona. Gli
invia una forza illuminatrice, risanatrice e divinizzatrice e piega a suo favore
le conseguenze tragiche del suo peccato. Dio cioè, che non ha voluto né il male
né la morte, lascia al male, alla sofferenza e alla morte il suo corso affinché
l’uomo, attraverso essi, si interroghi, si purifichi, e rientri in se stesso.
Quando l’uomo chiede a Dio: “dove sei?”, Dio chiede all’uomo: “e tu dove sei?
Dove sono io nella tua vita? Dove è il tuo cuore? Dove portano le tue vie?”.
Proprio la morte, da nemica, può diventare amica perché appannando
all’improvviso tutto può portare alla luce cose nascoste e porre domande fino
allora ignorate. Il dolore, che uccide e spesso all’inizio pone contro Dio,
può aprire sentieri sconosciuti e produrre frutti inimmaginati, può riportare a
quel Dio da cui ci eravamo allontanati e che per questo ci appariva inesistente
o estraneo o muto. Dio non veglia sulle nostre tragedie per inviarcele
cinicamente, non è cieco o distratto da non accorgersene, non è impotente da non
potercene salvare. Dio veglia sul nostro male perché ne nasca un bene. Non
teme il dolore dei suoi figli ma se ne serve affinché, come per un bambino
condotto in sala operatoria, ne nasca una guarigione. Dio non guarda dal di
fuori il nostro dolore ma ci è entrato dentro in Gesù, “uomo dei dolori”, per
mostrarci come trasformarlo in una via di luce, per viverlo in noi e
farcelo vivere in lui come strumento di Redenzione e come fonte di vita.
Se non vogliamo allora sprecare una tragedia o una morte, o seppellire
sotto le parole eventi dolorosi privati o pubblici dobbiamo sempre daccapo
chiederci: dove stiamo andando? Attorno a cosa ruota la nostra vita? Siamo
davvero giusti o siamo chiamati alla conversione? Dov’è davvero Dio? Farsi solo
domande sui sistemi di allarme e di prevenzione, fare solo ricerche di natura
medica o scientifica, indagare solo sui danni di natura economica,
significherebbe sprecare la morte di tanti e buttare al mare un patrimonio di
dolore. Le prime domande sono importanti e doverose. Ma le seconde lo sono
ancora di più. Le prime sono difficili, le seconde ancora di più. Le prime
permettono di ricostruire, le seconde permettono di rinascere.
don Andrea
Santoro
(da “Aesse”, n. 1, 2005)