Così l'America
diventa il Paese che cambia Dio
È irrequieto il gregge, e smarrite le pecorelle, nell'immenso ovile della
cristianità nord americana.
Sotto la coperta di una fede cristiana che si estende rassicurante come in
nessun'altra nazione
occidentale e avvolge genericamente il 75% dei cittadini, 230 milioni di anime e
corpi che qui si
professano credenti, le affiliazioni religiose cambiano con disinvoltura e senza
grandi traumi.
È una continua transumanza di cattolici che divengono episcopali, avventisti che
si uniscono ai
battisti, luterani che abbracciano Santa Romana Chiesa, con un fedele su due che
cambia altare
almeno una volta nella vita e uno su cinque che abbandona la fede nella quale fu
allevato dai
genitori prima di diventare adulto e compiere i 24 anni.
Della cristianità nella prima grande nazione nella storia moderna che
sancì il principio della libertà
assoluta di religione e della separazione fra stato e chiese, conosciamo
da anni l'esplosione del
fondamentalismo sudista cinicamente reclutato dai lupi della politica come
blocco elettorale,
l'invenzione del tele-evangelismo e la crescita delle mega chiese che raccolgono
in salmodianti
happening decine di migliaia di fedeli in strutture da palazzo dello sport
olimpico. Ma se gli Stati
Uniti si vantano di essere la più grande «christian nation» della Terra,
quando gli istituti di ricerca
come il Pew di Washington, frugano nel gregge che si proclama cristiano, si
scopre che il rapporto
con gli intermediari e i rappresentati del Dio della Bibbia è molto più
disinvolto e pragmatico di
come lo raccontino i luoghi comuni.
Gli americani fanno shopping religioso come fanno shopping tra partiti,
candidati, automobili o
detersivi, cercando la chiesa, il pastore, la confessione che meglio corrisponde
ai loro desideri. Se la
fede è un dono, la fede americana è un dono nel quale i compratori guardano bene
dentro e che
restituiscono facilmente al fornitore in cambio di un'altra, come i regali di
Natale il giorno di Santo
Stefano. Il 44% di chi si professa cristiano, appartiene a una
confessione diversa da quella appresa
da bambino. Due terzi di coloro che furono cresciuti come Cattolici o come
Protestanti confessano
di essere saltati da una parte all'altra dello steccato riformista o
controriformista almeno una volta,
spesso facendo andata e ritorno. Per delusione verso la fede ereditata, per
comodità di culto
soprattutto nelle regioni dove raggiungere una chiesa comporta viaggi di ore,
per assecondare e
seguire un coniuge che appartiene a un altro ovile. Moltissimi, il 50% dei
convertiti ad altre
confessioni, e il 70% degli ex cattolici divenuti protestanti, ammettono che la
loro fede «non gli
piaceva più».
E' dunque un Dio su misura, un cristianesimo molto
"pret-a-porter" quello che i 113 milioni di
americani che frequentano regolarmente una chiesa (o una sinagoga, o una
moschea, o un tempio
buddista) cercano, spesso insofferenti della rigidità dottrinale. Se i cattolici
romani restano la prima
confessione organizzata per numero di aderenti, 66 milioni in 19 mila chiese,
per il 23% della
popolazione, meno dei protestanti, che sono il 51% ma divisi in dozzine di
denominazioni, sono
proprio loro quelli che più soffrono e pagano per il dogmatismo centralistico
della Chiesa di Roma.
Gli apostati cattolici citano i temi classici e dolorosi della controversia
cattolica, l'aborto,
l'omosessualità, il sesso prematrimoniale, l'incomprensibile nyet alla
contraccezione, l'offensiva
esclusione delle donne dal sacerdozio, il celibato imposto ai preti, come cause
della loro
disaffezione e del loro distacco dalla Gran Madre. Il 2,5% dei 66 milioni ha
lasciato il cattolicesimo
scosso dall'orrore dei preti pedofili e, soprattutto, dal comportamento
pilatesco della gerarchia verso
i colpevoli. Il numero di aderenti alla Chiesa di Roma rimane stabile soltanto
grazie alle trasfusioni
di immigrati dalle comunità e nazioni cattoliche a sud della frontiera, ora che
l'Europa non fornisce
più le legioni devote che fecero di città come Boston o Baltimora bastioni del
cattolicesimo.
Sui documenti e sulle cifre delle ricerche demografiche, l'America, nella quale
il 90% proclama di
credere comunque in un "Ente" soprannaturale, sia esso il Dio degli Zoroastriani
o l'Allah del
Corano che conta 6 milioni di seguaci, rimane una nazione
incomparabilmente religiosa rispetto
all'Europa scristianizzata e laicizzata: nel giorno del Signore, alla
domenica per i cristiani, il 41%
degli abitanti si mette i vestiti della festa e si trascina in una chiesa,
contro il 14% dei francesi e il
6% degli svedesi. E per quanto ambigui e contraddittori siano i simboli
stampati su quelle
banconote che mescolano allusioni evidenti alla Massoneria, alla quale
appartenevano tanti dei
Padri Fondatori nel ‘700, alla promessa del "Noi confidiamo in Dio" appiccicata
dal presidente
Eisenhower nel XX secolo, nessun altra nazione occidentale oserebbe stampare il
nome di Dio sulla
propria moneta. Ma l'incessante turnover di fedeli fra una confessione e l'altra
segnala che anche in
materia di religione, gli americani tendono a credere più in Dio che nei
preti, a differenza di altri
cristiani più opportunisti.
E ad applicare anche alla religione il principio fondante della loro nazione,
che non è la Bibbia, ma
è la libertà di scelta individuale che pure il cristianesimo proclama e che il
cattolicesimo papista
spesso teme.
Vittorio Zucconi la Repubblica 29 aprile 2009