Sobrietà. Il
consumo responsabile al tempo della crisi
Diversi indicatori segnalano che la crisi economica, arrivata direttamente o
anche solo temuta, nei
bilanci famigliari ha prodotto un sensibile rallentamento dei consumi primari.
Ciò riguarda le
famiglie e gli individui che hanno poco margine di manovra, perché non sono
state in grado di
risparmiare e/o perché non possono contare su fonti di reddito alternative. Per
queste persone e
famiglie, più che di sobrietà è più corretto parlare di ristrettezze e
difficoltà.
Sobrietà, infatti, riguarda lo stile, più che la quantità di consumo e più in
generale uno stile di
comportamento. Non è neppure automaticamente assimilabile all'austerità evocata
durante la crisi
petrolifera degli anni Settanta, quando sembrava che fossero indebolite le
condizioni di benessere
per tutti, a motivo dell'aumento del costo di una materia prima essenziale e del
suo possibile
razionamento da parte dei proprietari, per lo più esterni al mondo sviluppato.
L'invito all'austerità
era un invito a ridurre i consumi tout court. Abbiamo visto come è andata:
passata la paura, ne è
seguita l'era del consumismo più sfacciato, più esibito, anche più volgare.
Oggi lo stimolo alla sobrietà viene dallo spettacolo dell'improvviso, e
disuguale, spiazzamento delle
condizioni di vita di interi gruppi sociali ad opera di meccanismi interni: di
un certo tipo di
capitalismo e di mercato senza regole, che ha rivelato i propri effetti
disastrosi sul piano sociale e
delle disuguaglianze anche agli occhi dei non esperti.
Di fronte al rischio di impoverimento di interi gruppi sociali, è lo stesso
modello di arricchimento
che viene messo in discussione ed alcuni comportamenti appaiono moralmente
intollerabili, oltre
che di cattivo gusto. E anche chi si sente al riparo può essere indotto a
modificare il proprio stile di
vita, in direzione di consumi meno vistosi, meno offensivi per chi non se li può
permettere, ma
anche più consapevoli, più attenti al rapporto tra qualità e prezzo, all'evitare
gli sprechi. Senza
necessariamente ridurre il proprio standard di vita e sentendosi anche virtuosi.
Così si cercano i luoghi in cui si possono comperare i detersivi alla spina, in
cui pasta e riso di
buona qualità si acquistano sfusi e a peso, come quando io ero bambina –
risparmiando, con
benefici anche per l'ambiente, sulle confezioni. Si entra in un gruppo di
acquisto per avere prodotti
qualitativamente migliori a prezzo più basso. E si aderisce alla parola d'ordine
dei prodotti a
chilometro zero, che riduce i costi dei passaggi di mano e valorizza i prodotti
del territorio.
Si va meno al ristorante, ma si fanno più inviti in casa. Si cerca di spiegare
ai propri figli che non è
proprio necessario andare sempre in giro firmatissimi, da capo a piedi, e che se
anche non si ha
l'ultimo modello di (orrende) sneakers si sopravvive benissimo lo stesso.
E non è proprio
strettamente necessario possedere l'ultimo gadget più o meno tecnologico.
Aumentano così
probabilmente – o cambiano di registro – le negoziazioni intrafamiliari,
potenzialmente, ma non è
detto, allargando lo spazio per riflessioni su priorità e valori.
Anche senza ipotizzare maliziosamente che, come per l'austerità, questo
atteggiamento durerà solo
il tempo della crisi, non sedimentando in comportamenti e modi di essere e fare
più stabili, non se
ne possono nascondere alcuni effetti paradossali. In primo luogo, proprio perché
la sobrietà nel
consumo intesa come non spreco e attenzione alla qualità piuttosto che alla
visibilità, è un
atteggiamento che riguarda chi non è costretto dalla necessità, rischia di
creare nuove, più sottili
forme di divisioni sociali. C'è chi può solo accontentarsi di sottomarche e di
discount di incerta
qualità, e chi ha le risorse culturali, di tempo, di informazione, per cercare
il gruppo di acquisto più
sfizioso e che può permettersi pochi capi di buona qualità.
Allo spreco vistoso può sostituirsi l'understatement, che segna una
ancora più forte distinzione
sociale – come è sempre stato, per altro.
In secondo luogo, la riduzione dei consumi da parte di chi potrebbe
permetterseli può avere un
effetto negativo su coloro che invece devono ridurli perché non possono
permetterseli: riducendo la
domanda di beni e quindi anche del lavoro di chi quei beni produce. Per questo,
a differenza che
all'epoca dell'austerità, nessun politico e nessun movimento ha fatto della
sobrietà un invito o una
parola d'ordine.
Forse il miglior risultato si potrebbe conseguire sul piano dei
comportamenti pubblici: più sobrietà
nelle dichiarazioni, nelle promesse e nelle accuse dei politici, ma anche nelle
attese salvifiche nei
confronti dei potenti di turno.
Più sobrietà, ed anche modestia, da parte dei vari esperti ed istituzioni
nazionali e internazionali che
non hanno dato una brillantissima prova di lungimiranza e capacità di controllo.
Più sobrietà nei
personaggi dello spettacolo e nei vari reality e spettacoli televisivi.
Se non sbaglio, sono stati i
terremotati dell'Aquila a rilevare quanto fossero offensive le "sofferenze" dei
protagonisti di non so
quale reality a fronte delle loro concretissime tende quotidianamente
allagate e alla loro vita
devastata.
Chiara Saraceno la Repubblica 28 aprile 2009
La misura dei
desideri
Nel suo ultimo e incisivo libro intitolato É la stampa, bellezza!,
Giorgio Bocca scrive qualcosa di
particolarmente pungente e severo sulla natura della pubblicità odierna:
«Essa è creatrice
inarrestabile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina
il genere umano verso
nuove guerre e, forse, verso l'autodistruzione». La sua previsione è
forse eccessiva, ma riflette una
paura crescente che la crisi in corso ha messo in particolare evidenza. Il
timore è quello di aver
superato un limite, oltre il quale non ci stiamo più limitando a consumare, ma
stiamo intaccando il
nostro futuro e quello dei nostri figli. Siamo imprigionati in un sistema
globale la cui legittimità
politica dipende dalla capacità di assicurare standard di vita sempre più alti e
di consumare sempre
di più. Ciò vale ovunque e per tutti, dalla nuova politica democratica
di Barack Obama al regime
capitalista-comunista cinese; dal politico miliardario Silvio Berlusconi che
ride sempre al sempre
cupo scozzese presbiteriano Gordon Brown; dalla caotica democrazia indiana al
serpeggiante
autoritarismo russo. Ovunque le élite politiche fanno sempre più promesse.
Il grande toccasana della nostra epoca è stato il costante incremento degli
standard materiali, che ha
attenuato le ineguaglianze tra i nostri Paesi - che si sono acuite enormemente -
offrendo la speranza
di un futuro migliore alle generazioni successive. Noi che continuiamo ad
arricchirci sempre più
osserviamo con commiserazione i meno fortunati che, soprattutto in Africa,
combattono guerre
genocide, scatenate in primis da miseria e povertà.
L'improvviso abbassarsi dei nostri standard di vita ci trasmette tuttavia
qualcos'altro: noi abitanti dei
Paesi ricchi forse non torneremo mai alla ricchezza in costante crescita che
davamo facilmente per
scontata; i nostri privilegi nascevano dal presupposto di avere alle nostre
dipendenze manodopera a
basso costo proveniente dall'Europa dell'Est, dalla Cina, dall'India e dalle
Filippine. Quella
manodopera così a buon mercato è composta anch'essa di consumatori, e i loro
governi devono
assicurare loro di più. Il loro "più" è il nostro "meno".
L'atteggiamento che ben si confaceva all'era dei consumi era l'edonismo,
i cui simboli esteriori sono
le automobili di grossa cilindrata, gli schermi al plasma di dimensioni
esorbitanti, gli abiti firmati,
le vacanze in centri di villeggiatura di lusso. Inizia invece ora a farsi strada
una nuova mentalità che
deve essere presa sul serio: mi riferisco alla sobrietà, alla moderazione, alla
semplicità. Da sempre
prerogativa di coloro che hanno abbracciato stili di vita "alternativi" -
movimenti "Verdi", figure
religiose, perfino alcuni socialisti - alla maggior parte di noi è sempre parsa
eccentrica e naif, ma...
se avessero ragione?
A noi tutti che abitiamo nei Paesi ricchi è stato lanciato il seguente
messaggio: è vero, dovremo
affrontare uno o due anni difficili, ma poi la crescita tornerà. Ma è
altrettanto verosimile che la
crescita possa non tornare come prima e che la politica che ne conseguirà possa
non essere più
dominata dall'opposizione della sinistra e della destra, bensì dalla necessità
di abbassare le
aspettative. Ci serve una nuova politica, il cui successo dipenderà
da un nuovo atteggiamento
collettivo, che ben si esprime nel concetto di "sobrietà". Proprio come chi
è sbronzo è incurante di
sé e di ciò che lo circonda, così chi è sobrio è invece in grado di mostrare
attenzione per sé e per la
società. Dopo una lunga ubriacatura, è arrivato per noi tutti il momento di
diventare sobri. Sarà
difficile, ma probabilmente non avremo alternative.
John Lloyd la Repubblica 28 aprile 2009
La via etica allo shopping
intervista a Giampaolo Fabris, a cura di Maria Novella
De Luca
Non più compulsivi ma selettivi. Attenti nella scelta, nomadi nella ricerca,
abilissimi nell'equazione
miglior qualità minor prezzo, surfisti delle offerte, decodificatori di
etichette e codici, bio, etici e
responsabili. La crisi incalza e la vita s'adegua, i consumi prima crollano ma
poi si plasmano al
tempo, e tra gli scaffali dell'invenduto nasce una nuova categoria di "utenti
intelligenti", come li
definisce il sociologo Giampaolo Fabris, più sobri, più austeri forse, ma non
per questo "meno
felici".
Professor Fabris, chi sono i nuovi consumatori? Siamo di
fronte a un mutamento
"antropologico" dello shopping?
«Sì, il mutamento epocale è in atto e la crisi economica non ha fatto altro che
accelerarne la corsa.
Più che di nuova sobrietà però parlerei di una riscoperta della
responsabilità. Perché pur in una
contrazione di costi e di spese il consumo mantiene intatte le sue
caratteristiche ludiche e di
appagamento, ciò che cambia sono gli universi di riferimento».
Faccia un esempio.
«L'etica. I consumatori premiano le aziende che a loro parere si comportano
bene, nel senso che non
sfruttano i lavoratori, non inquinano, riciclano, non fanno sperimentazioni
sugli animali. I soldi
sono pochi e devono essere spesi bene, benissimo. Un dato che fa riflettere è
che in piena recessione
di acquisti, le vendite dei prodotti del mondo green, cioè verde, ecologico,
rinnovabile, sono
aumentate dell'8 per cento. Tanto che alcune catene della grande distribuzione
hanno cominciato a
far apparire sui loro scontrini la quantità di anidride carbonica prodotta dai
diversi marchi».
Lei sostiene però che la tendenza a una maggiore sobrietà, anzi
responsabilità, fosse già in atto
prima della crisi. Non è dunque soltanto la necessità a renderci più
impermeabili al consumo?
«I farmers market, i gruppi di acquisto solidale esistono da anni. Ma
erano piccoli mondi alternativi
alla grande distribuzione. Oggi sono realtà economiche concrete, simboli appunto
di quella nuova
antropologia del consumo, dove si preferisce una mela italiana magari meno
bella, a una mela
neozelandese, rossa e perfetta, ma nel cui costo sono compresi litri e litri di
carburante scaricati
nell'aria durante il trasporto fino ai nostri scaffali».
In uno dei suoi ultimi libri lei trasforma la parola "marketing" in "societing",
dove i marchi e
i prodotti si dematerializzano per diventare segni e simboli...
«Certo perché il consumo è anche agire umano e sociale. E dunque ogni mutamento
in questo
campo crea cambiamenti nei modi di vivere, di pensare, di stare insieme».
Infatti lei afferma che questa nuova sobrietà, questo non poter più comprare
liberamente (o
compulsivamente) ci ha resi, paradossalmente, più felici.
«È la tesi sorprendente di una ricerca che avevo effettuato nel Natale scorso.
Pur non potendo più
spendere per i regali il budget dell'anno prima, le persone rispondevano che
questo sacrificio non le
aveva rese più tristi ma anzi più felici e selettive. Le stesse parole di chi
supera una fase bulimica
della propria vita».
Lo shopping è anche una modalità del tempo libero. Soprattutto per i giovani,
che passano i
pomeriggi nei centri commerciali. E adesso?
«Non lo nego, questa è la sfida. Sostituire i beni di consumo con i beni di
relazione. Bisognerà
ripensare il tempo libero. Passare cioè dallo spendere al parlare, dal guardare
le vetrine al guardarsi
negli occhi. Non è facile, ma è una grande occasione».
la Repubblica 28 aprile 2009