La libertà contro
la liberazione?
La politica è l'arte della dissimulazione più o meno onesta, ma la lingua,
invece, non mente.
Adriano Prosperi, su «la Repubblica» di ieri, centra perfettamente il punto
quando vede in
quell'apparentemente piccolo slittamento semantico, da «festa della liberazione»
a «festa della
libertà», la posta in gioco della battaglia politica e simbolica che si sta
combattendo sulla data del
25 aprile. La quale posta in gioco non è solo l'ingresso o meno, e l'accoglienza
o meno, di Silvio
Berlusconi e delle sue truppe nel cerchio di gesso del mito fondativo della
Repubblica: se di questo
si trattasse, saremmo tutti contenti e avrebbero perfettamente ragione quelli
che commentano
soddisfatti «meglio tardi che mai», sottolineano il successo conseguito
dall'appello di Giorgio
Napolitano a «una rinnovata unità nazionale» e sperano in una improvvisa, e fin
qui sempre
smentita, conversione di Berlusconi alla Costituzione. Senonché i miti fondativi
non sono dei pranzi
di gala o degli after hours a menu fisso. Sono delle date dotate di
senso, e il cui senso cambia a
seconda delle riscritture che se ne fanno. Entrando nel mito
fondativo, Berlusconi lo riscrive e ne
cambia il senso. E questo cambiamento di senso, più che la misurazione
col bilancino delle frasi
dedicate ai partigiani e ai «combattenti di Salò», ai meriti di chi stava dalla
parte giusta e alle
«responsabilità in buona fede» di chi stava dalla parte sbagliata, lo
restituisce precisamente quello
slittamento dalla «festa della liberazione» alla «festa della libertà»: per le
ragioni che Prosperi
scrive, e per altre che si possono aggiungere. Scrive Prosperi: «Nella
parola 'liberazione' e solo in
quella è iscritto il ricordo di un fatto storico che ha segnato la discontinuità
fra due Italie. Questo
termine sta a ricordare che c'è stata una lotta di una parte del paese contro
un'altra, che quella parte
pur minoritaria seppe allora raccogliere l'esito della fine del consenso al
regime e conquistarsi nel
paese un altro e diverso consenso di massa». Mantenere quella parola,
dunque, significa mantenere
aperta una ferita - non per rinnovarla e rinfocolarla, ma per mantenere il
ricordo, il memento, che la
Repubblica è nata da una lotta, da una divisione, da una ribellione e da un no a
un regime di
illibertà. Sostituirla con «libertà» significa chiudere la ferita e
seppellirne il ricordo. Significa anche
risanarla?
È evidente a chiunque abbia seguito le tortuose vicende del senso della festa
della liberazione che
quella di ieri, pur con tutti i bilancini di cui sopra, chiude il cerchio
aperto, ormai 25 anni fa, da una
famosa intervista sul Corsera in cui Renzo De Felice invocava «il superamento
della
contrapposizione fra fascismo e antifascismo». Ma non si tratta solo di questo.
Il fatto è che la
parola «libertà», che secondo Berlusconi potrebbe e dovrebbe ri-nominare la
festa, non entra in
campo come un valore condiviso o come il frutto maturo e collettivo di quell'originaria
liberazione.
Entra in campo come una parola di parte, profondamente marcata dal senso che
Berlusconi stesso e
tutta la «nuova destra» da lui aggregata nel '94 le ha conferito; come la
bandiera di cui solo poche
settimane fa lui e Fini hanno ammantato quel «partito degli italiani» che porta
nel suo nome la
confusione populista e nazionalista fra la parte e il tutto; come l'insegna
sotto la quale per quindici
anni si è aggrumata l'ideologia - in senso forte - del berlusconismo.
Sempre Prosperi ricorda, citando Marc Bloch, che «il concetto di libertà è
uno di quelli che ogni
epoca rimaneggia a suo piacere»; come l'abbia rimaneggiata, in Italia e
in tutto l'occidente, l'epoca
che si è aperta nel 1989, in contrasto con quella che si era aperta nel 1789, lo
sappiamo bene. Libero
mercato, libera proprietà e libero consumo; libertà dalle regole; libertà dalla
politica e trionfo
dell'antipolitica: di questo e di nient'altro è stato fatto il catechismo
mainstream della libertà negli
ultimi venti anni. Il che ovviamente non ci rende questa parola meno cara,
né meno urgente la
necessità di riconquistarla a quel significato eminentemente politico, non
individualistico, non
contabile, non proprietario, mai garantito e sempre da rimettere al mondo che
Hannah Arendt
magistralmente le attribuiva. Invece di esercitarsi in piccole sfide
tattiche a Berlusconi dai risultati
controversi, è su questa grande sfida di riscrittura della libertà, in direzione
opposta a quella
berlusconiana, che una sinistra dotata di senso dovrebbe misurarsi, ed è questo
il terreno su cui
finora è mancata.
Ida Dominijanni il manifesto 28 aprile 2009