Pietà sembra morta
per la chiesa e per lo stato
Abbiamo letto e sentito nelle ultime settimane, in relazione al caso Englaro,
parole
durissime da parte di organi di stampa cattolici e di autorità della chiesa,
anche di altissimo
livello, parole giunte fino all'accusa di assassinio e di richiesta di scomunica
per tutti coloro
che hanno contribuito ad alleviare le sofferenze e ad abbreviare, con umana
pietà e con gli
strumenti medici, suggeriti da una più che millenaria esperienza, il cammino
alla morte di
una non più giovane donna in stato di pre-morte da diciassette anni.
L'impressione è che il confronto tra due ragioni – il dovere di ciascuno
di noi e dell'intera
società di difendere la vita dall'inizio alla fine e quello di rispettarne
sempre la libertà, che
necessariamente si esprime come autonoma responsabilità di decisione del singolo
– è stata
trasformata, per ragioni di prestigio ideologico e di potere, in un feroce corpo
a corpo di
torti, che travolgono, invece di rispettare, il difficile, nel caso, tragico
passo alla morte delle
persone.
È così che l'agonia di una giovane donna, che si è prolungata per diciassette
anni, è assurta a
bandiera di un'intricata lotta tra clericali e anticlericali, potere
giudiziario e potere politico,
presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, leggi dello stato e
norme della
chiesa. Il tutto scavalcando ogni diritto e ogni dovere delle persone:
familiari, medici,
singoli cittadini, credenti o non credenti, coinvolti nella vicenda direttamente
o anche solo
interessati a capire che ne sarà del proprio faticoso passaggio a quello che un
tempo era
detto l'«aldilà».
Si attenderebbero i non credenti di poterlo affrontare come difficile
cessazione di vita, senza
ulteriori prospettive, confortati però dall'amore dei familiari e degli amici e
aiutati dal sapere
medico, anche a questo deputato, così che il passo sia meno doloroso e il più
umano
possibile. Spererebbero i credenti di trovarsi accanto, oltre a tutto ciò, anche
una parola di
incoraggiamento a sentire tale atto non solo come una fine, ma anche come
possibile inizio
di una nuova vita, redenta dal dolore e dal peccato.
Sentono oggi da chi detiene il potere nello stato e nella
chiesa che tale momento sarà, a
causa delle leggi di tutela e controllo da tali poteri richieste e imposte a
ogni loro singolo
passo fisico e singola richiesta di aiuto medico o amicale, solo «orribile
morte», da
scamparsi ad ogni costo, anche al costo di un'agonia senza fine, vero inferno in
terra. Il che
aumenta, invece che diminuire, il senso di paura e di smarrimento che colpisce
ogni vivente
al primo manifestarsi di qualche segnale di fragilità che lo possa far pensare a
una fine
prossima o anche solo possibile.
Pietà sembra morta per la chiesa e per lo stato, purché chiesa e stato si
assicurino il diritto di
mettere il loro imprimatur sul morire di ciascuno, proprio come a suo tempo
hanno fatto per
il nascere. Andiamo forse verso un’ulteriore burocratizzazione del
nascere o del morire, con
tutto ciò che ogni burocrazia comporta come ulteriore e penoso carico di
difficoltà per il
vivere.
Hanno protestato e protestano i laici non credenti, accusati di
anticlericalismo. È giusto far
sapere che protestano anche molti credenti, in nome del Vangelo e
dell'autentico spirito di
rispetto per l'uomo e di visione comunitaria e non gerarchica della chiesa,
propri del
Vaticano II. Protesta anche larga parte del «popolo di Dio», o, se si vuole, dei
cristiani,
anche cattolici, laici e preti, costretti oggi al silenzio da un autoritarismo
ecclesiastico anticonciliare,
che trascina la chiesa al disastro, e da un laicismo ideologico che preferisce
ignorarne l'esistenza, perché li ritiene ridicolo residuo di un sentire
religioso ormai
storicamente superato.
Possiamo sottolineare l'assenza, in questo dibattito sulla morte, di una parola
cara alla
tradizione, una parola laica e precristiana, piena di umana verità e di sofferta
passione:
«agonia». Ci siamo così abituati a lasciare gestire la morte dei nostri cari
agli ospedali, da
aver dimenticato che tra la vita e la morte sta spesso, sempre più spesso, il
momento ultimo
e penosissimo del transitus, il momento del «lento morire». Questa
espressione estrema
della vita gli antichi la chiamavano «agonia», lotta e sofferenza, augurandosi
fosse presto
vittoriosa. Sapendo, però, che in ultimo sarebbe stata perdente e che la vita
fisica avrebbe
ceduto alla morte, perché siamo carne e polvere, alla polvere destinata, non
operavano
affinché si prolungasse troppo a lungo.
In qualche paese è ancora in uso una pratica antica. Un mesto rintocco di
campana segna
l'inizio dell'agonia di un morente, e ciascuno lo sente come invito a pregare
perché Dio
accolga l'anima dell'agonizzante e l'agonia non sia un travaglio troppo
prolungato e penoso
alla nuova vita che ci attende presso Dio. Persino nelle società pre-cristiane e
presso i popoli
delle più svariate e più o meno evolute civiltà, era ed è uso, a fronte
dell'estremo atto di
resistenza e di resa della vita alla morte, pregare il divino perché lo renda
rapido e indolore.
Si chiedeva e si chiede a chi può che non lo prolunghi. Si invoca dagli
amici e persino dai
nemici la pietà di affrettarne la fine, di non trasformare il morire in tortura.
Scomparsa l'esperienza diretta delle morti in casa e in famiglia, di questo
transitus, comune
e spesso pubblico, dalla vita alla morte, è scomparso anche l'uso comune della
parola
«agonia», che gli dava voce. È accaduto così che non si sia capito che nel caso
di Eluana,
non la vita, ma la sua agonia durava da diciassette anni, e che la questione in
gioco non era
restituirle la vita o darle morte, ma allungare, senza pietà, questa agonia, o
pietosamente
aiutarla a chiudersi nell'unico modo ormai possibile. Anche questo produce
la crescita
dell'ignoranza pubblica e la perdita del prezioso dono delle parole,
elaborate dalla cultura
millenaria dei popoli di cui il cristianesimo è una straordinaria e ineguagliata
espressione.
in “il foglio” n. 360 – mensile di alcuni cristiani torinesi del marzo 2009