Il tabù del pontefice


Basta una parola e l´interesse si accende. Quella parola del papa: preservativo. È la prima volta. E tutto il resto passa in secondo piano.
Quella parola riassume la realtà di un intero continente in una immagine che salda rapporti sessuali e malattia. Ma è la consistenza tutta materiale dell´oggetto che colpisce: è come se all´improvviso si incrinasse l´aura di meditazione di quello studio papale dal quale siamo abituati a veder uscire libri e discorsi su temi delicati e materie spirituali. Ma nessuno sull´uso del preservativo.
Si vorrebbe evitare di cadere nella trappola che quella parola mette sul sentiero di una delle rare occasioni che si hanno in Italia di parlare delle realtà e dei problemi dell´Africa. L´Africa, infatti, ci è vicina non solo fisicamente. Il viaggio papale potrebbe richiamare l´attenzione sulla realtà e sui problemi di un continente sulle cui speranze di crescita economica e civile la crisi attuale fa gravare di nuovo lo spettro di barriere protezionistiche negli scambi commerciali e di restrizioni perfino nell´offerta di lavoro nero e più o meno apertamente schiavistico.
Ma la parola che si è affacciata sulla bocca del papa ci ricorda che quel continente ha per gli italiani il volto delle prostitute delle nostre periferie urbane, cioè quello della minaccia dell´Aids. E di associazione in associazione vengono in mente tante cose: i tentativi di qualche ministra di cancellare la vista di quelle donne a suon di circolari, accettando e nascondendo così la realtà della schiavitù femminile fatta di corpi a buon prezzo - perché intanto la prostituzione resta l´unica carta di ingresso valida per le donne, specialmente per quelle africane.
Ma la frase del papa non è certo casuale. Essa anticipa il senso di questo viaggio e gela in partenza ogni speranza di mutamento nelle posizioni ufficiali della Chiesa. Si ribadisce così una condanna ecclesiastica dei contraccettivi che dura da decenni, che ha sollevato dubbi e critiche anche all´interno del mondo cattolico e che continua a indirizzare l´azione dei missionari cattolici opponendoli all´opera di quelle organizzazioni sanitarie internazionali che insistono sulla necessità di combattere l´Aids anche con i preservativi: anche, non solo.
Perché sicuramente il papa ha ragione quando dice che l´epidemia «non si può superare con la distribuzione dei preservativi» e quando chiede cure gratis per i malati di Aids. Ma quell´aggiunta – «anzi, i preservativi aumentano i problemi» – sembra piuttosto discutibile. Non è forse vero che quella barriera meccanica tutela le donne e può impedire la trasmissione del virus dell´Hiv? E dunque perché ostinarsi a proibirne l´uso? Perché non avviare un´educazione sanitaria alla sessualità che, nelle mani delle potenti reti missionarie della Chiesa, inciderebbe rapidamente e profondamente nella realtà di quel mondo?
Abbiamo conosciuto nelle nostre università generazioni di medici cattolici che hanno dato un contributo generoso di lavoro volontario negli ospedali delle missioni, specialmente in Africa. A persone come loro è diretto l´invito papale alla condivisione fraterna, a "soffrire con i sofferenti". Ma che cosa accadrà a chi usa il preservativo?
La durezza atroce, disumana della condanna ecclesiastica che ha colpito con la scomunica la bambina brasiliana e i medici che ne hanno salvato la vita facendola abortire non è stata un bell´esempio di condivisione delle sofferenze. Perfino in Vaticano qualcuno ha avuto l´impressione che si sia esagerato: ma forse solo perché la reazione delle coscienze offese è stata immediata e unanime. Di fatto non risulta che quella scomunica sia stata cancellata. Il corpo della donna resta ancora per questa Chiesa un contenitore passivo di seme maschile, un condotto di nascite obbligatorie, segnato dal marchio biblico della maternità come sofferenza. L´anima di una bambina brasiliana o di una donna camerunense è meno importante di quella di un vescovo antisemita e negazionista.

Adriano Prosperi     Repubblica 18.3.09