LAICITÀ: COME SE DIO CI FOSSE O COME SE DIO NON CI FOSSE?
 

"Taci, relativista!". Ho la sensazione che sia in questa globale e confusa atmosfera che viene enunciata ed annunciata l'esigenza di ri-scrivere un nuovo statuto della laicità. Riassumendola: non più una laicità "contro", ma una laicità "per". E precisandola (con una piccola dose di tecnicismo): una visione della storia, non più etsi Deus non daretur, ma veluti Deus daretur.
Ci sono ancora dei margini per discutere? Si può distinguere? E, perché no, dissentire? Se si può, comincerei, sommessamente, col dire che si tratta di un importante dibattito filosofico, con decisive conseguenze sull'or-ganizzazione delle nostre società (prevalentemente quelle occidentali) e, quindi, anche sulla nostra vita individuale: etica, religioni, politica; sfera pubblica e sfera privata. Un crogiuolo di temi e di passioni tale che da qualunque versante lo si voglia avvicinare, si è passibili di energiche contestazioni. Ad esempio, la stessa affermazione che si tratti di un confronto "filosofico", è contestata. E, tuttavia, visto che, in questo confronto-scontro, spesso si parte o si arriva all'ormai famosissimo dialogo tra il filosofo Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger penso che non sia proprio del tutto sbagliato questo approccio.
Cercherò di argomentarlo e, soprattutto, di ricavarne qualche conseguenza rasserenante e liberante per un credente-cristiano-cattolico.
Proseguo, quindi, con l'affermare il mio fermo convincimento che si tratta di un confronto (quello complessivo, in cui si colloca anche il dialogo appena ricordato) di altissima valenza per il nostro vivere quotidiano: come individui e come società. Si tratta, infatti, come è stato ben detto, di interrogarsi – incessantemente e mai definitivamente – su cosa tiene insieme il mondo: le nostre vite collettive.
Può esistere un'etica propriamente umana (e anche una norma, e anche un pensiero) senza un qualche tipo di ancoraggio alla trascendenza (questo termine non rinvia subito e necessariamente al soprannaturale!)? Ma, anche e soprattutto, può reggere l'idea che senza un punto fermo, un qualche tipo di fondazione, ci sia la possibilità per argomentare (fondare!) le ragioni di una certa opzione di vita piuttosto che di un'altra? È intorno a questo interrogativo che ci si sta arrovellando; ed è qui il luogo strategico della laicità.
La stessa questione può essere posta con il noto interrogativo: in cosa crede chi non crede? E anche con la nota affermazione: Se Dio è morto, tutto è permesso. Quest'ultima affermazione sembra far cambiare natura al problema; invece – è la mia convinzione (liberante, ma non per questo tranquillizzante) – resta una eminente questione filosofica: filosofia morale, filosofia "privata", filosofia pubblica.
In un bel libricino di recentissima pubblicazione (Il bello del relativismo, quel che resta della filosofia nel XXI secolo; a cura di Elisabetta Ambrosi, edito da Marsilio, I libri di Reset), si può leggere: "In realtà gran parte della riflessione contemporanea ha confutato da tempo la tesi di un'alternativa netta tra fondazionalismo e relativismo e insieme quella che nega che da un pensiero che si riconosce soggettivo, contingente e finito possa emergere una forma di normatività" (p. 31). Anzi, Salvatore Veca argomenta che "la più preziosa fonte di normatività risiede precisamente nel riconoscimento della nostra contingenza".
Ma ci sono altri filosofi che argomentano diversamente. E legittimamente, non solo un cardinale, ma – a mio modo di vedere – anche un papa (visto che l'uno e l'altro sono innanzitutto episcopo) può partecipare attivamente a questa ricerca. E allora? Tutto tranquillo? Non proprio! Infatti, mi chiedo: quando Ratzinger argomenta che un pensiero non fondazionalista è ipso facto relativista e che, se sei relativista, sei a-morale (interpreto correttamente il pensiero del filosofo Ratzinger?), egli sta parlando di fede cristiana?
Ecco la questione che m'inquieta. Sono tenuto a vivere veluti Deus daretur, oppure posso ancora – laicamente – "sfacchinare" quotidianamente, per il bene comune, con le donne e gli uomini di questo mondo, etsi Deus NON daretur? (Tra parentesi, preciso che anch'io sono, laicamente, consapevole che "un secolarismo straniante" oggi – ma perché ieri no? – è ormai storicamente inutile; ma qui c'è tutta la complessa questione della critica alla modernità!). E se, invece, i miei fratelli vescovi si esercitassero di più ad approfondire, incessantemente: in che cosa crede chi si dice cristiano?
Ho imparato, da giovane, che l'essenza del cristianesimo è una persona e non una dottrina. E ricordo che il grande Romano Guardini, nel 1949, scrive: "Il cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazareth". Dunque: una persona, in carne ed ossa. La sostanza è tutta qui: nella sua "pericolosa" fragilità. Tutto il resto (e so bene che non è poca cosa): la filosofia, la cultura, l'arte, la teologia, la storiografia, ecc. è una legittima, a volte illuminante a volte meno, produzione delle intelligenze degli uomini e delle donne del tempo e dei tempi. Di questo sforzo ho il dovere morale di essere partecipe: incespicando e camminando di fronte alle mie responsabilità.
L'atto di fede e di umiltà, permanente, che è richiesto alla Chiesa – sempre attraverso i secoli, in tutte le diverse civiltà e culture – è far parlare Lui; resistere alla tentazione di frapporsi.
Ma, oggi, la Chiesa non sa parlare di (annunciare) Cristo (condivido, in proposito, l'ottima analisi del n. 3/2005 di Concilium). Forse un aiuto e una nuova speranza di poter comunicare la fede cristiana, senza perderne l'anima, ci può venire dalla recente riscoperta degli studi e delle ricerche sul "Gesù storico". "Perché – e condivido profondamente questa affermazione di uno storico, che faccio mia – al di là delle formule sulla evangelizzazione, nuova o vecchia che sia, che centrano tutto sul rapporto fra mondo e messaggio, il nodo è quello del rapporto fra Chiesa e Vangelo, fra la sposa e lo Sposo, fra le anime e Gesù. E se il livello scientifico della ricerca rimane circoscritto a se stesso, apparentemente ‘inutile' alla vita vissuta del popolo cristiano, ciò non è solo dovuto a una scelta degli esegeti: riflette (invece) uno stato delle Chiese". (Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi, 2004).


 di Mario Campli ,  Comunità cristiana di base di san Paolo  -   Adista notizie  n.1  2006