Quando la legge è invasiva


Senza la ferma e argomentata critica alla proposta sul testamento biologico in discussione al Senato, e al sostegno venuto a questa posizione da un numero crescente di cittadini, non vi sarebbero stati i dissensi all´interno della maggioranza che lasciano intravedere la possibilità di una discussione non scandita soltanto dalla violenza del linguaggio e dalla povertà degli argomenti.
Da questo è legittimo trarre una lezione politica. La nettezza delle posizioni paga, la critica al proibizionismo legislativo incontra il consenso sociale, le mediazioni tutte interne alle logiche di partito non servono a nulla. Si fanno strada, insieme, la consapevolezza che si stanno mettendo in discussione le libertà fondamentali della persona e la percezione dell´inadeguatezza degli strumenti giuridici ai quali si vuole ricorrere.
Forse non tutti se ne accorgono, ma stiamo ridefinendo il ruolo del diritto (e di riflesso della politica) nel mondo contemporaneo, più precisamente il rapporto che lo lega alla vita nelle sue diverse manifestazioni. Veniamo da una fase in cui si era duramente affermato che la regola giuridica doveva tenersi lontana dalla vita economica. Deregulation, appunto, era divenuta la parola d´ordine, tradotta in politiche deliberate di ritirata dello Stato, di rinuncia ad un diritto di fonte pubblica, lasciando così il mercato alle regole liberamente create da soggetti economici, dal sistema delle imprese.

Un´opposta linea è progressivamente emersa, con particolare forza in Italia, per quanto riguarda la vita privata. Qui, complice la difficoltà sociale di metabolizzare i cambiamenti profondi determinati dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, si è fatta strada un´idea autoritaria di ricorso al diritto che, caduti una serie di vincoli naturali che governavano il nascere e il morire delle persone, dovrebbe imporre alle persone vincoli artificiali nel governo del corpo.
Ora gli effetti catastrofici della crisi finanziaria fanno invocare non solo un ritorno del diritto, ma la messa a punto, per la vita economica, di un sistema interamente rinnovato nelle istituzioni e nelle modalità d´azione dei diversi soggetti pubblici e privati. Parallelamente, sull´onda assai emotiva del caso Englaro, si è aperta una pubblica discussione sul grande tema del rapporto tra la vita e le regole che, proprio perché molti sono i fraintendimenti e le strumentalizzazioni, merita un´attenzione non legata alla contingenza.
E´ necessario liberarsi da un modo semplificato di guardare al diritto, di cui la forza delle cose ha messo in luce l´inadeguatezza. Bisogna esercitare la virtù della distinzione: solo così si può giungere alla radice vera dei problemi. Infatti, mentre nella dimensione economica la regola giuridica serve ad impedire sopraffazioni da parte di chi esercita un potere altrimenti incontrollabile, riconducendo così le stesse negoziazioni dei privati "all´ombra della legge", quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza proprio quella regola può divenire essa stessa sopraffazione. Qui l´interrogativo si fa radicale: diritto o non diritto? E, comunque, che tipo di diritto?

Per rispondere a questi interrogativi non si può rappresentare la situazione attuale come lo scontro tra opposti estremismi, rimanendo prigionieri della logica del "clash of absolutes", di quel conflitto tra "assoluti" al quale ha dedicato riflessioni penetranti uno studioso americano, Lawrence Tribe, mettendo tra l´altro in evidenza come ormai la questione capitale sia quella di evitare che lo Stato possa imporre il ricorso ad una tecnologia, sacrificando così la libertà della persona. Proprio seguendo gli itinerari del diritto si può cogliere un cammino di progressiva liberazione delle persone da vincoli impropri, che implica anche un ridimensionamento del ruolo del diritto, non più strumento autoritario, ma custode dell´autonomia di ciascuno. Così, avvicinandosi alla vita, la regola giuridica incontra il suo vero limite.
Seguiamo qualche tratto di questo cammino. Quando si è attribuito un valore prioritario al consenso informato della persona, si è operata una redistribuzione di poteri, si è individuata un´area intangibile dall´esterno, si è sottratta la vita alla prepotenza del potere politico e alla dipendenza dal potere medico. Non sto dicendo che tutto sia stato risolto. Scrivendo su questo giornale, Carlo Galli e Roberto Esposito hanno ricordato come nelle situazioni critiche, il morire appunto, la biopolitica torni con la sua pretesa di impadronirsi del corpo: non dimentichiamo che due libri come il "Trattato sulla tolleranza" di Voltaire e "Sorvegliare e punire" di Michel Foucault si aprono con una descrizione di corpi, del supplizio di Jean Calas e dell´esecuzione di Damiens. Stiamo assistendo a un ritorno di questa pretesa, accompagnata da una restaurazione del potere medico nelle forme di una asimmetrica "alleanza terapeutica", dove il morente e i suoi familiari non sono lasciati soli nel fiducioso dialogo con il medico, ma consegnati all´esecutore di una impietosa volontà legislativa che cancella la rilevanza della volontà degli interessati.
Proprio perché di tutto questo rimane piena la consapevolezza, non ci si può limitare a invocare l´assenza della legge. Bisogna allontanare dalla vita una regola giuridica invasiva, portatrice di fondamentalismi e autoritarismi, e al tempo stesso sottolineare che vi è un ruolo del diritto come guardiano di un confine invalicabile, perché tracciato attraverso la "costituzionalizzazione" della persona. Non entriamo in una zona grigia, ma in uno spazio di libertà dove si arresta la stessa pretesa del diritto di dettare alla vita le sue regole.
Questo non è un risultato da conquistare, ma una acquisizione da difendere. Ribadire la libertà di scelta, il diritto al rifiuto di cure, allora, non è affermare una posizione di parte, bensì segnalare il punto a cui è giunto un cammino civile e giuridico, che oggi si vuol rimettere in discussione. Infinite volte, in questi tempi difficili, si è ricordato che i principi fondamentali del nostro sistema già offrono tutti gli strumenti per garantire non solo al morente, ma a tutti noi, la libertà in quella fase estrema del vivere che è appunto il morire. Qui serve il rispetto, non la pretesa di impadronirsi della vita altrui, magari invocando in modo largamente abusivo il principio di precauzione o capovolgendo il significato delle previsioni dell´Onu su alimentazione e idratazione forzata.
Da questo nesso sempre più intenso tra vita e libertà scaturisce per la vita un senso più profondo, e il diritto trova una sua più discreta misura. Si mette al servizio del "mestiere di vivere", e così può essere oggetto di apprendimento, luogo dell´uomo e non del potere, strumento più umile e disponibile e non imposizione inammissibile.

Stefano Rodotà     Repubblica 27.2.09