Perché una legge è necessaria

Caro Direttore, ho apprezzato il tono delicato e serio di Angelo Panebianco nell'illustrare i motivi
per cui, sui temi che riguardano la fine della vita, l'intervento del legislatore non sia opportuno: «La
democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale», scrive l'editorialista. Mi pare, però,
un approccio azzardato su cui propongo un'ulteriore riflessione. Il dibattito sul testamento biologico
nel nostro Paese non è una novità, il Parlamento ha iniziato ad occuparsene quasi quindici anni fa,
non riuscendo tuttavia a dare concretezza alle proposte. Non credo vi sia stata la volontà da parte
del legislatore di proteggere quella «zona grigia» in cui ognuno si comporta come meglio crede, in
assenza di regole stabilite. La ragione, per quel poco che ho imparato a conoscere il mondo politico,
è che nel nostro Paese si agisce e si legifera quasi sempre sull'onda dell'emergenza e dell'emotività.

Come l'aumento dei casi di violenza urbana porta ad autorizzare le ronde di quartiere, così
drammatiche vicende umane, come quelle di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, fanno ritornare
alla ribalta la legge sul testamento biologico che solo un anno fa la destra contrastava e definiva
inutile.
Condivido con Panebianco l'idea secondo cui le questioni che riguardano la vita e la morte non
devono diventare la posta in gioco del conflitto politico e, sinceramente, mi pare che tra i due
schieramenti esista una tale trasversalità da non farci correre questo pericolo. Eppure, sul versante
del fine vita, dobbiamo essere onesti ed ammettere come stanno davvero le cose. Non stiamo
discutendo solo di approccio filosofico, dobbiamo fare i conti con il mondo reale e con quello che
accade dentro gli ospedali.
Possiamo anche fare dell'ipocrisia una virtù, ma dobbiamo comunque
dire che nelle rianimazioni italiane le decisioni sulla fine della vita dei pazienti vengono prese in
continuazione, ogni giorno, da medici che operano in scienza e coscienza ma che, nella maggior
parte dei casi, non possono conoscere gli orientamenti dei pazienti rispetto alle terapie da accettare
o meno nelle fasi finali della vita. Bastano i risultati di una ricerca condotta dall'Istituto Mario Negri
di Milano che dimostra come su circa 3.800 decessi avvenuti in cento rianimazioni sparse in tutto il
Paese, nel 62% dei casi i medici abbiano attuato la cosiddetta «desistenza terapeutica» nelle ultime
72 ore di vita del paziente. La decisione dunque avviene nella «zona grigia» di Panebianco, il che
significa che il medico di guardia (non il medico di una vita, il padre, la madre, un figlio o un
parente) decide in scienza e coscienza, ma anche in solitudine, di non avviare la dialisi, di non
somministrare la nutrizione artificiale, di non intubare il paziente per collegarlo al respiratore
automatico. I medici decidono anche di sospendere le terapie, compresa la nutrizione artificiale (nel
17,6% dei casi) o il respiratore automatico (nel 5% dei casi).
Di fronte alla concretezza della realtà, io sono convinto che una legge sia necessaria, che non sia
degno di un Paese civile che le decisioni sulla fine della vita di una persona siano prese senza tenere
conto delle indicazioni di quella persona e senza un dialogo aperto e sereno tra i medici e i familiari.

Le indicazioni lasciate dal paziente sono di conforto al medico in molte circostanze. Il dialogo con
la famiglia può servire anche banalmente per permettere a un figlio che abita lontano di viaggiare
per poter vedere per l'ultima volta il proprio genitore.
La realtà della vita è fatta anche di gesti semplici e umanamente comprensibili. Per questo servono
le regole e non l'ipocrisia.
Capisco che il mio approccio possa essere influenzato da quasi vent'anni
vissuti in una cultura anglosassone, ma su questo tema non voglio smettere di sperare che il mio
Paese, per una volta, non accetti di fare «all'italiana», ovvero evitando o aggirando le regole. Voglio
essere ottimista, e mi auguro che riusciremo a fare quel passo avanti necessario per lasciare da parte
l'emotività e avvicinarci alla cultura delle società liberali, di cui parla Panebianco, in cui ogni
persona abbia la possibilità di lasciare delle indicazioni su come essere curato nel momento più
imperscrutabile della nostra esistenza, quello della morte.

Ignazio Marino     Corriere della Sera  26 febbraio 2009