E ora una legge

E così, alla fine, Eluana Englaro ha sorpreso tutti. Se n’è andata prima che il Parlamento potesse
impedirglielo, prima che si consumasse l’uso politico di un caso umano, prima che l’Italia al suo
capezzale potesse verificare se e quanto soffre un povero corpo quando non viene più alimentato
artificialmente. Mai come in questo caso il nome della clinica in cui Eluana ha terminato i suoi
giorni è risultato più controverso: la «Quiete» di Udine ha dato pace alle sofferenze di Eluana e
della sua famiglia, ma ha alimentato la battaglia, in atto da tempo su questi temi, tra i fans della vita
a tutti i costi e i sostenitori a oltranza della volontà individuale. La morte sopraggiunta ha certo
richiamato ai più il senso del mistero e della compassione, ma ha surriscaldato molti animi nel
Parlamento e nel Paese, con le parti in causa che si sono lanciate accuse infamanti.
Colpisce in questa drammatica e triste vicenda - per i molti che la vivono in modo serio e non
strumentale - la passione del confronto.
Colpisce l’irriducibilità delle posizioni. Le questioni di fine vita non sono gli unici temi etici che
oggi interpellano a fondo l’opinione pubblica e le coscienze, in una società alle prese con molte
emergenze (presenza massiccia d’immigrati, lavori sempre più precari, crisi economica e
finanziaria, ecc.) che mettono a soqquadro le nostre convinzioni di fondo e chiedono nuove regole
di convivenza. Tuttavia tra i problemi scomodi che la modernità porta con sé, un posto di assoluto
rilievo spetta ai temi del significato e del confine della vita, della possibilità di autodeterminare il
proprio vivere e morire, di quanto sia lecito far ricorso alla tecnologia per prolungare l’esistenza
. E
ciò, sia perché siamo talmente pervasi da un’alta idea di qualità della vita da rabbrividire all’ipotesi
di un’esistenza meno degna; sia perché siamo attorniati da casi umani (anziani «assenti», malati
terminali, giovani vite spezzate) che continuamente ci ricordano la rilevanza e la «prossimità» del
problema.

Qui emerge la forte divergenza di posizioni e culture di cui il caso Englaro è assurto a simbolo. Per
gli uni, Eluana era un guscio vuoto, un essere privo da molto tempo delle qualità umane, tenuto in
vita da un sondino nasogastrico che sa di accanimento terapeutico, non potendo più far fronte in
modo autonomo alle sue funzioni vitali. Le lesioni subite nell’incidente di 17 anni fa le avrebbero
atrofizzato il cervello, impedendole la possibilità del risveglio. Con la morte della «corteccia» (la
parte del cervello cui è legata la coscienza), tutto finisce e la pietà umana interviene per porre fine a
una vita che non è più tale.
Ma proprio questi argomenti vengono contestati dai fautori di un’altra idea della vita. Quelli che
vedono in casi come questi la presenza di un principio vitale (un corpo che ancora respira
autonomamente, un cuore che continua a battere) che dev’essere salvaguardato. Anche con una
coscienza dormiente o assente, c’è una vita da accompagnare e da rispettare; evitando dunque che il
suo commiato sia accelerato, che la sospensione del sostegno vitale assuma la forma di un’eutanasia
strisciante.
L’inconciliabilità delle posizioni, dunque, è evidente. Ciò che divide non è soltanto la diversa lettura
di queste situazioni limite offerta dagli esperti (biomedici, giuristi), ma anche un differente modo di
pensare la vita e la sua dignità. Ciò che per alcuni sono le condizioni base per vivere (vita con
coscienza, principio di autodeterminazione) per altri rappresentano requisiti non sufficienti. Per
alcuni interrompere in questi casi l’alimentazione e l’idratazione artificiale è un atto di pietà, per
altri è un’omissione di risorse vitali e di affetti.
Da più parti si chiede che il dramma di Eluana non sia avvenuto invano, che la sua morte serva a
ridurre le polemiche per lasciar spazio a una riflessione compiuta e costruttiva. In particolare, molti
auspicano che la classe dirigente del Paese non aspetti altri casi Englaro per affrontare in modo
organico la questione dei trattamenti di fine vita. Di qui l’attesa che il Parlamento vari finalmente
quella legge sul testamento biologico sulla cui necessità c’è ampio consenso. Persino i Vescovi
qualche mese fa si sono pronunciati a favore di un intervento in questo campo, dopo che per molto
tempo l’avevano osteggiato. Tuttavia, il consenso deve tradursi in soluzioni concrete. A quale
testamento biologico fare riferimento? Quali criteri e clausole introdurre? Come trovare punti di
convergenza su questioni che dividono le coscienze e trasversalmente anche i gruppi sociali e
politici?
Tra le questioni più calde v’è certamente la possibilità di interrompere (in condizioni particolari)
l’alimentazione e l’idratazione artificiale e l’interrogativo di chi abbia il diritto di decidere e dei
modi in cui la decisione dev’essere assunta. Nel primo caso si tratta di valutare le situazioni in cui il
fornire cibo e acqua artificialmente si presenti come un atto di accanimento terapeutico; oppure se
la loro sospensione si configuri come un atto eutanasico. Nel secondo, occorre senza dubbio
riconoscere l’importanza della volontà del diretto interessato, ma nel quadro di una decisione che
non risulti come un ricorso all’eutanasia (esclusa dalla legislazione italiana). Di qui l’importante
funzione del medico, che - come avverte la Chiesa -, «in scienza e coscienza» e in dialogo con i
familiari, contribuisca alla ricerca della soluzione da adottare.
La strada dunque è irta di ostacoli. Ma da più parti si spera in una convergenza di orientamenti che
ci offra una legge che per lo meno porti a scegliere il «male minore». Le posizioni si possono
avvicinare se ognuno riconosce le buone ragioni degli altri e gioca al meglio le proprie risorse per
arricchire la cultura della nazione.

Franco Garelli       La Stampa 11 febbraio 2009