L'ora della nostra tristezza

Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti
gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire
quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace
nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma
vegetativo permanente.
Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien
meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama
amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e
della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi
13).
Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il
morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico
sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano
all’omicidio.

E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana
per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico,
non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin
dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.
Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita
e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in
faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte.
Quasi
fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui
il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce
che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il
pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi
s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire
a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura
moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché
ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi
è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e
- per alcuni - Dio?

 

La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo
diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita,
quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine,
farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazionealimentazione
di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente
enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art.
32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome
del diritto alla vita.
La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata.
Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il
rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza.
Questa strada è sottratta alla capacità
dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a
macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui
son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in
nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e
nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e
utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia.
Welby e Eluana dicono l’indisponibilità,
assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico:
non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé
non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la
morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più
noi».
Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte)
anche noi ci saremo, ma morti-viventi.
È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che
spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che
vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino
. L’autonomia del morente
restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il
malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del
bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità.
Risponde con il testamento biologico, per
evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento
terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde
anche al timore di chi - non meno solitario - mantiene la sonda.
Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona
accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e
se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure
dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba
considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il
rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla
nazione, o alle spese sanitarie.
L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può
snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma
anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a
Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?
Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento
soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel
terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di
silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma
coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena
perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni
essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle
paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio
s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile.
Lì stiamo: non da una parte il
popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti
egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole.

Barbara Spinell       La Stampa  4 febbraio 2009