Laicità debole o
forte per me pari sono
Come spiego nei miei lavori, che tentano di offrire un modello di analisi
pluralistico, ossia
rispettoso dei diversi modi di intendere la laicità, per fare ordine intorno a
tale nozione risulta
indispensabile distinguere due significati di fondo del termine: uno largo e uno
ristretto. In senso
largo la laicità allude ad una serie di atteggiamenti metodici (autonomia
discorsiva, pluralismo,
tolleranza, ecc.) che si riferiscono sia alla sfera teorico-conoscitiva, sia a
quella pratico-politica. In
virtù del suo carattere procedurale, tale forma di laicità può essere fatta
propria da chiunque, cioè
non solo dai non credenti, ma anche dai credenti. In senso stretto la laicità è
invece propria di coloro
che non si limitano a rispettare i sopraccitati criteri metodici, ma che pensano
e vivono a
prescindere da (qualsivoglia) Dio e da (qualsivoglia) credo religioso. Per
classificare il significato
largo o metodologico usiamo l’espressione «laicità debole », mentre per
alludere al significato
ristretto o ideologico usiamo l’espressione «laicità forte» (in questo
caso debole e forte hanno una
valenza descrittiva e non valutativa). A mio avviso la laicità debole e la
laicità forte risultano
entrambe possibili e legittime, al punto che ogni tentativo di eliminare uno dei
due significati
equivale ad una manifesta forzatura del linguaggio e della realtà. Perché il
significato ristretto di
laicità - o del laico come non credente - pur essendo ampiamente usato nel
linguaggio ordinario,
dovrebbe venir «censurato» nel linguaggio colto? Ritengo che nell’odierna
congiuntura storicoculturale
il dovere democratico di salvaguardare tutte le identità debba valere non solo
in relazione
ai credenti, ma anche in rapporto ai non credenti e che la salvaguardia
dell’identità «laica» di questi
ultimi debba avvenire anche sul piano linguistico. Mi spiace che questo punto
saliente del mio
discorso sia passato in secondo ordine o non sia stato debitamente sottolineato,
quasi non fosse
abbastanza evidente che precludere ai non credenti la possibilità di
autocomprendersi come «laici»
in senso stretto significa privarli di un termine che, nel mondo moderno, è
storicamente servito loro
per caratterizzare se stessi. Perché chi professa una forma di
agnosticismo (o di ateismo) non
dovrebbe più essere considerato «laico», ma solo «laicista», con tutti i
sottintensi polemici e
svalutativi che tale termine, inteso come sinonimo di una laicità «patologica »
o «pseudolaica»
comporta?
il ruolo dello stato
Certo, a queste considerazioni si potrebbe opporre l’idea, divenuta ormai luogo
comune, secondo
cui oggigiorno non ha più senso parlare di «laici e credenti», ma solo di «laici
credenti e laici non
credenti». In realtà, quando parliamo di «laici credenti e di laici non
credenti» intendiamo, per
laicità, quella debole o procedurale. Viceversa, quando parliamo di «laici e
credenti» intendiamo,
per laicità, quella forte. Per cui, le due proposizioni sono entrambe
fattualmente vere e l’una non
esclude l’altra. Poste queste delucidazioni di ordine linguistico e
teorico, è chiaro che lo Stato, in
quanto rappresentativo di un’area pubblica comune, in cui coesistono credenti,
non credenti e
diversamente credenti, è tenuto a farsi garante di tutte le identità e di tutte
le voci e quindi ad evitare
che, in nome di un’unica identità e di un’unica voce (ossia di un determinato
progetto egemonico) si
soffochino tutte le altre identità e le altre voci. In altri termini, se
l’elemento centrale e strutturante
della laicità è il pluralismo, è ovvio che la capacità (o meno) di rispettare e
garantire il pluralismo
rappresenta un obiettivo criterio di giudizio delle varie proposte (o dei vari
modelli) di laicità.
Giovanni Fornero l'Unità 30 gennaio 2009