Laicità «sana» o dimezzata?


Si parla sempre più frequentemente, soprattutto negli ambienti cattolici e in quelli laici interessati
alla religione come religione civile, di «nuova», «giusta» o «sana» laicità. Questa laicità «nuova»
pretende di far convivere pluralismo e privilegi e assomiglia a una pallida reincarnazione del passato,
una sorta di «semi-laicità» che rappresenta ciò che rimane dell'antico sogno della «repubblica
cristiana» che inconsapevolmente si appoggia sull'opposto del principio di Westfalia: cuius religio,
eius et regio.
Le Chiese, le fedi religiose, i rispettivi dèi chiedono di disporre di territori su cui
organizzarsi e imporsi. In questo tempo di paura e di ostilità crescenti nel mondo, anche le religioni,
nelle loro espressioni tradizionali, si mobilitano per creare identità e coesione sociale da gettare nel
conflitto. L'epoca della neutralizzazione politica rispetto alle religioni sembra terminare la sua curva
ascendente. Gli Stati laici vengono percepiti come ostacoli a una nuova confessionalizzazione degli
spazi. Dove non è possibile imporre direttamente regimi teocratici o ierocratici, si parla almeno di
«nuova» laicità.
L'intensità è diversa; il movimento è lo stesso.

Che, poi, questa «nuova» laicità sia anche «sana» oltre che «giusta», sembra da escludere. Essa,
contraddicendo l'equidistanza dello Stato dalle manifestazioni di fede — religiosa o laica che sia —
contraddice il suo ruolo pacificatore, che è venuto a imporsi nelle società pluraliste e che oggi
appare ancor più necessario e urgente nelle società interculturali odierne. D'altro lato, spinge il
«religioso» a compromettersi col «politico», mettendo a rischio la stessa sopravvivenza della
religione come dimensione trascendente dell'esperienza umana. La sua ragion d'essere diventa la
garanzia d'una vita terrena, la sua forza si confonde con quelle che hanno nel governo degli uomini
il loro fine e finisce per annullarsi in esse, rendendosi in ultimo superflua, secondo la profezia di
Soren Kierkegaard.


Si ha un bel dire — come si dice dai tempi di Costantino il Grande — che la Chiesa comunque,
per la sua matrice divina, non si annulla nel potere. Si annulla, invece, almeno parzialmente, in
quanto contribuisce a fondarlo!
Se non si annullasse, e dunque seguisse integralmente la sua
missione ultramondana, non servirebbe più allo Stato e verrebbe meno la ragione perché questi
debba riconoscerle privilegi.
Se poi la Chiesa invece li richiede e li ottiene pur non rinunciando alla
sua missione eccedente la pura e semplice dimensione secolare dello Stato, può essere solo perché
lo Stato non viene a trattarla come una delle forze spirituali in competizione nella sfera sociale, ma
come qualcosa di qualitativamente diverso: se ciò accade, significa che esso, per interposta persona
e per delega, si assume, oltre al compito di governare i corpi, anche il compito di salvare le anime.

La Chiesa che chiede e ottiene privilegi in nome della sua funzione civile o «nazionale» — dal
canto suo — spende il principio della fede — il Cristo — non come fine che redime il mondo, ma
come mezzo per garantirlo in quanto mondo: in questo, la figura del Grande Inquisitore, che
ingiunge al Cristo di non tornare mai più per poter realizzare liberamente il suo terribile, anche se
soffice, programma di governo, è, ancora di nuovo, attuale.

Gustavo Zagrebelsky     Confronti, mensile di dialogo ecumenico  n° 1 del gennaio 2009