La dittatura mediatica
È sintomatico che, nelle reazioni polemiche alla boutade di Silvio Berlusconi
sul presidenzialismo, in pochi abbiano sentito finora la decenza di ricordare il
macroscopico conflitto di interessi che grava tuttora su di lui, capo del
governo e capo di un´azienda che funziona in regime di concessione pubblica.
E dunque, controparte di se stesso, in quanto locatore e nello stesso tempo
conduttore delle frequenze televisive che appartengono allo Stato. Quasi che una
tale anomalia fosse stata rimossa dalla memoria collettiva, abrogata
dall´opinione pubblica, cancellata dalla consapevolezza nazionale.
A parte le pudiche allusioni di Walter Veltroni che ieri s´è dichiarato
contrario al presidenzialismo «nelle condizioni date e con le distorsioni già
esistenti», è mancata o comunque è stata carente nelle file dell´opposizione una
replica netta e precisa su questo punto. Sarà che ormai il Paese ha
metabolizzato il problema; sarà che oggi, con Berlusconi per la quarta volta al
governo in quindici anni, la questione appare praticamente insanabile; oppure
sarà per la cattiva coscienza che perseguita ancora il centrosinistra per non
essere riuscito a risolverla quando era in maggioranza. Fatto sta che, fra tutte
le motivazioni a favore o contro il presidenzialismo, questo argomento è rimasto
nell´ombra, virtualmente accantonato, come se fosse stato messo in archivio o
nel congelatore.
Si dirà: ma tanto ormai Berlusconi fa il presidente del Consiglio, che
differenza c´è se diventa presidente della Repubblica? D´accordo. È già uno
scandalo gravissimo che il conflitto di interessi in capo al premier non sia
stato risolto finora, nonostante le promesse e gli impegni assunti
pubblicamente. E anzi, non sarebbe mai troppo tardi per rimuovere la trave,
tanto più quando si va a guardare la pagliuzza nell´occhio altrui, come nel caso
di Renato Soru, governatore dimissionario della Sardegna.
Ma un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, e per di più
con poteri esecutivi, proprietario di tre network privati, titolare di una
concentrazione televisiva e pubblicitaria senza uguali al mondo, né in quello
civile né in quello incivile, riunirebbe nelle proprie mani troppi poteri per
risultare compatibile con un livello minimo di legittimità e autorità
democratica. La sua sarebbe, a tutti gli effetti, una dittatura mediatica. E
allora il capo dello Stato rischierebbe di non rappresentare più l´unità
nazionale, il garante supremo della vita politica, la "guida della Nazione".
Sappiamo bene che al di qua o al di là dell´Atlantico, dall´America alla
Francia, esistono regimi presidenziali dotati di pesi e contrappesi, con tutti i
crismi della democrazia. In nessuno di questi Paesi, però, un tycoon televisivo
è mai diventato premier e meno che mai potrebbe diventare capo dello Stato. Il
"modello Berlusconi" è un inedito assoluto, universale, planetario. Un "unicum"
non replicato e non replicabile.
Ma la verità è che a questo punto il danno è stato già fatto, i buoi sono
scappati dalla stalla e perciò sarebbe inutile chiuderla adesso. Nell´Italia
berlusconiana, il regime presidenziale ha un rapporto simbiotico con la
dittatura mediatica: nel senso che l´uno è funzionale all´altra e viceversa.
Dopo aver imposto dalla metà degli anni Ottanta l´egemonia della sua cultura o
incultura televisiva, su cui poi ha costruito la leadership politica che gli ha
assicurato la maggioranza e il governo del Paese, ora Berlusconi vuole tentare
l´ultimo colpo, l´assalto finale al Colle, il salto nell´empireo dei "padri
della Patria". E in linea con la sua natura predatoria e populistica, non cerca
soltanto un´elezione, tantomeno tra i banchi del Parlamento; ma piuttosto un
referendum o meglio un plebiscito, nelle strade, nelle piazze, nei gazebo. Se
potesse, anzi, gli basterebbe certamente un sondaggio d´opinione o magari un
televoto.
A quasi dieci anni di distanza, dunque, vale ancora l´ammonimento che il
senatore a vita Gianni Agnelli consegnò al nostro direttore in un´intervista
apparsa su Repubblica il giorno dell´elezione di Carlo Azeglio Ciampi al
Quirinale. Alla domanda se non pensasse che quella sarebbe stata l´ultima
votazione parlamentare del Capo dello Stato, l´Avvocato rispose: «Francamente,
penso che sarebbe un errore. Vedo troppi rischi in un´elezione diretta del
presidente della Repubblica, senza il filtro delle Camere per un ruolo così
delicato e di garanzia. Con le televisioni, tutto diventa troppo semplice,
esagerato, con pericoli di populismo. Meglio di no». Ecco, troppo semplice,
esagerato: proprio così.
Giovanni Valentini Repubblica 23.12.08