Italiani brava
gente
Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre - la società
italiana consentì
passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò,
nonostante
«luminose eccezioni» - che le parole in Italia si pervertono così facilmente e
ciclicamente. Non
scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti
accertati. Quel che è
normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e
presentato come normalità.
Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è
smarrita la via, che si va
in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un
luogo: perdi le
coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano
tanto a dirle, se
spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non
manipolabili da chi
tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non
riguardasse anche lui,
anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno
facili a scrutare i
cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la
«vocazione
all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura,
negata ma presente»: sono
vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio
degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le
menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude
riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale.
Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è
perché l’Italia non sa
guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando
indifferente. I tedeschi, che
hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i
vocaboli quasi
fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per
riavvicinarsi alla parola
Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati
a Volk, popolo, li
imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano
anche davanti ai
termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di
guerra contro lo Stato.
La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non
giustificava, come avviene in
guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano
come ineludibili
lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i
disastri nati in
passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del
fascismo né del
terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e
sedizioso è chi si ribella
all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi
ogni giorno ai
telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di
Pietro, senza che
nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese
il potere. Di Pietro è
confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del
tutto regolare. Molto
più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per
faccia tosta soprattutto
gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con
le Brigate Rosse
durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o
tra magistratura e
politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari
poteri dello Stato. Si
ignora che tra procure non c'è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui
non ci fu guerra tra
etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione
legale di una procura
chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De
Magistris (i magistrati
di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui
dipendono). Il
Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto
ascoltare quel che la
procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno
nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro
scorgono un politico
normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità
nazionale ma sprezzato,
minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi
coloro che magari
hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa
dovesse essergli
sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale:
l’illegale diventa la norma,
la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d'Europa: lo
denuncia l’appello del
12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul
fascismo è, a mio
parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su
Repubblica, quando descrive la
corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle
inchieste napoletane o
abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di
favori banalizzato; il
«triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti
perché in un modo
o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos
linguistico, il discredito
della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che
giudici e pm agiscano in
autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri
problemi. Si
vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione
qualsiasi denuncia:
secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno
«scelte dal legislatore
(cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei
cittadini». Non si sopporta che
l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione
s’estende alla
scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che
una persona ridotta a
stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte,
l’esecutivo cancella
la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che
denunciano lo Stato etico
prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute
Eugenia Roccella fa
questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta
e la violazione di una
sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato
vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse
testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista
Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà
vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il
cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla
crisi, probabilmente. È
Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana,
ucciso dalla
camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla
priorità della parola.
A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la
parola al centro di
una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e
fucili. E non metaforicamente.
Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua
armatura: pronunciarsi.
Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di
tracciare. Una parola
orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
Barbara Spinelli La Stampa 21
dicembre 2008