L'outing di Fini
Ci sono le polemiche politiche sui rapporti tra Chiesa cattolica e fascismo e
c’è anche un nodo
storiografico nelle dichiarazioni di Fini, un riferimento a un’interpretazione
del fascismo come
«autobiografia della nazione» sul quale vale la pena soffermarsi.
Interrogandosi sul perché la
società italiana nel suo insieme sia stata così torpida, inerte, connivente nei
confronti dell’infamia
delle leggi razziali, Fini ha evocato (non so quanto consapevolmente) non solo
il valore della
testimonianza degli antifascisti, di quella minoranza eroica che riuscì a
mantenere acceso un
barlume di opposizione a prezzo di enormi sacrifici, ma anche l’ignavia della
maggioranza degli
italiani, di quelle folle straripanti che inneggiavano al Duce e che nel regime
si riconoscevano, in un
gioco di rispecchiamento che faceva del fascismo il «luogo storico» in cui
affioravano tutti i nostri
vizi tradizionali, una religiosità bigotta, un familismo autoritario, il
disprezzo per la cultura, un
concetto servile della legittimazione del potere, il culto della «roba», «un
misto - come scrisse
Mariuccia Salvati - di azzeccagarbugli e ragion politica, di nazionalismo e
statalismo, di protervia e
di garantismo».
Le parole di Gobetti
C’era il razzismo in quell’Italia che si rispecchiava nelle piazze fasciste,
quello degli scienziati e dei
colti e quello degli stereotipi e dei luoghi comuni popolari sulle «faccette
nere », e c’era anche
l’antisemitismo della tradizione cattolica. A dar conto in maniera più compiuta
di questa realtà, a
inserire il fascismo nel lungo periodo della storia italiana legandolo ai mali
endemici di una
democrazia zoppa, inquinata dal trasformismo e dalle pulsioni autoritarie che
serpeggiavano
nell’esecutivo e negli ambienti di corte, fu proprio quel filone
politico-culturale che si riconosceva
nella celebre affermazione di Piero Gobetti, «il fascismo è
l'autobiografia di un popolo che rinunzia
alla lotta politica, che ha il culto dell'unanimità, che fugge l'eresia, che
sogna il trionfo della facilità,
della fiducia, dell'entusiasmo», successivamente ripresa da Carlo
Rosselli («Il fascismo sprofonda le
sue radici nel sottosuolo italico; esprime vizi profondi, debolezze latenti,
miserie di tutta la
nazione»).
Rivelazione nazionale
Allora, in seno all’antifascismo, a questa interpretazione del fascismo come
«rivelazione» delle tare
genetiche che avevano dall’inizio appesantito il progetto di «fare gli
italiani», si affiancavano quella
che insisteva sul fascismo «reazione di classe» (il Pci e in genere il movimento
operaio) e quella del
fascismo «parentesi» del liberalismo crociano. Delle tre, la più vitale e la
meno caduca si sarebbe
rivelata proprio la prima, con conseguenze significative soprattutto per quanto
riguarda il significato
dell’antifascismo. Se Fini è coerente con le cose che dice, le conseguenze da
trarre dalle sue parole
portano infatti a riconoscere nell’antifascismo un valore permanente dell’Italia
repubblicana, una
risorsa a cui un paese come quello che ha partorito uno dei più significativi
totalitarismi
novecenteschi non può fare ameno di attingere; non più un semplice «patto sulle
procedure», una
coalizione di partiti, uno schieramento politico legato solo alle condizioni
estreme della lotta contro
la dittatura e l’invasione tedesca, ma un «eccesso» di democrazia, una necessità
etica, culturale e
politica per un paese attraversato da una sinistra coazione a ripetere che ogni
volta rende
affascinanti soluzioni politiche al cui interno coniugare il sovversivismo e
l’illegalità endemica
delle nostre classi dirigenti con una irrefrenabile voglia di autorità e di
ordine che proviene dai
recessi più oscuri della nostra esistenza collettiva.
Dimenticanze e rimozioni
Un’ultima considerazione. Anche il consenso espresso da Veltroni alle parole di
Fini andrebbe
misurato su questo terreno. Al momento della sua fondazione il Pd si era
dimenticato
dell’antifascismo. Allora sembrò un lapsus, oggi appare come la spia
dell’incapacità di avere un
progetto di lungo periodo («il coraggio di non contare ad anni, ma a
generazioni», come scriveva
Carlo Rosselli) e della scelta sciagurata di azzerare una delle eredità più
significative di quel tipo di
antifascismo, una teoria della classe politica, della sua formazione e
selezione, radicalmente
democratica e insieme frutto di un processo faticoso, impegnativo, costoso in
termini di
responsabilità personale e di consapevolezza della non negoziabilità di alcuni
fondamenti ultimi .
Giovanni De Luna il manifesto 19 dicembre
2008