Non è una storia su
cui tifare: qui è in gioco la libertà
L'aveva sempre detto: «Non so nemmeno io come riesco a sopravvivere a questo
inferno, ma andrò
avanti». Beppino Englaro non ferma la sua marcia. E nemmeno indietreggia
nonostante i colpi di
scena nella battaglia che conduce da anni per la sospensione della nutrizione e
dell'idratazione
forzata alla figlia Eluana, 38 anni compiuti un mese fa, metà dei quali passati
in un letto d'ospedale
in una condizione che la medicina stessa paragona a quella dei vegetali.
A ventiquattro ore dalla decisione della casa di cura «Città di Udine», in
Friuli, dapprima
disponibile ad accogliere Eluana per poter attuare il decreto della corte
d'Appello di Milano e, in
seguito all'intervento del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, costretta a
sospendere
temporaneamente il ricovero per accertare il senso del provvedimento del
ministro, per Englaro la
situazione non cambia. Il padre di Eluana sostenitore delle «libere scelte»
aveva dichiarato: «Non è
giusto e nemmeno dignitoso che altri calpestino le nostre identità personali. La
mia non è una
vicenda da tifo da stadio. Non è una storia da "con me o contro di me". E' una
questione di libertà e
di certezza di diritto nello stato di diritto».
Non sarà quindi questo ennesimo stop a scuoterlo dalle sue convinzioni:
«Rispetterò le volontà di
mia figlia che mai avrebbe voluto vivere un giorno solo in stato vegetativo. Se
non potrà morire in
pace a Udine, la porterò fuori dall'Italia».
Una battaglia portata avanti dalla famiglia «alla luce del sole», dalle prime
udienze in tribunale fino
alla stesura procedurale di quelli che saranno gli ultimi giorni della donna. Il
protocollo firmato
dalle parti nel quale vengono chiaramente indicate le modalità da seguire per
l'interruzione
dell'alimentazione forzata, è stato depositato nella Questura di Udine così che
nessuno possa
muovere accuse di «procedimenti eutanasici».
Il professore Amato De Monte, primario di rianimazione con la consulenza di Gian
Domenico
Borasio, titolare della cattedra universitaria in cure palliative a Monaco, uno
dei maggiori esperti al
mondo sull'argomento, e il professor Carlo Alberto Defanti, neurologo e medico
di Eluana hanno
elaborato una scala di osservazione fatta su misura per lei per controllare il
passaggio che la donna
farà, così come il padre ha sempre auspicato: «Da una non vita artificiale ad
una condizione più
umana e naturale».
Nessun sondino verrà staccato. Non servirà. Chi accudirà Eluana, poi, sarà
costretto alla
segretezza avendo firmato una dichiarazione per la tutela della privacy e farà
parte di una équipe di
volontari. Nonostante la donna verrà ricoverata nella struttura privata e non in
quella pubblica della
clinica «Città di Udine», per Englaro, la decisione è dell'ospedale, non ci
saranno oneri. A parte
quello più gravoso e profondo. Quello personale con la propria coscienza che il
padre di Eluana, dal
momento in cui è diventato il suo tutore, ha spiegato a tutti così: «Non conta
cosa avrei voluto fare
io. Conta cosa voleva l'Eluana. Contano le sue volontà che sono sempre state
chiare, decise, nette a
dispetto della sua giovane età. La mia coscienza sarà a posto solo quando
riuscirò a vederle
finalmente esaudite».
Elena Lisa La Stampa 18 dicembre 2008
Eluana e i
guardiani ubbidienti
I leghisti l'avranno presa male, anche se al momento non c'è traccia di reazioni
ufficiali. E così i
federalisti, di cui trabocca la nostra scena pubblica. Perché l'editto di
Sacconi, l'atto con cui il
ministro pretende di chiudere a Eluana le porte d'ogni clinica pubblica o
privata, è innanzitutto questo: un diktat per le Regioni, nonché per le Province
di Trento e di Bolzano. È insomma la mascella volitiva dello Stato, che detta
legge agli enti decentrati. Ma come, non siamo già immersi
mani e piedi in uno Stato federale? Non c'è alle viste il federalismo fiscale
che renderà totale
l'immersione? Evidentemente no. In Italia funziona così, c'è spazio solo per un
federalismo dei
giorni dispari, nei giorni pari ciascuno torna al suo vecchio mestiere.
Ma la questione si misura essenzialmente in punta di diritto. Come d'altronde
fin qui è sempre
accaduto, in questa guerra di carte bollate e di sentenze combattuta su un corpo
senza coscienza,
senza volontà. Tuttavia l'ultimo episodio registra un miracolo giuridico: la
resurrezione del defunto.
Il provvedimento di Sacconi riesuma difatti la funzione d'indirizzo e
coordinamento, con cui lo
Stato ha regolato per trent'anni l'attività delle Regioni. Lo faceva in nome
dell'interesse nazionale,
una formula magica ospitata nel vecchio testo della Costituzione. Ma a
condizione che l'atto
d'indirizzo venisse espressamente previsto in una legge, che fosse adottato
dall'intero Consiglio dei
ministri, che la Conferenza Stato-Regioni avesse manifestato il proprio assenso.
Come stabiliva
l'art. 8 della legge Bassanini (n. 59 del 1997), che entrò in vigore quando la
funzione d'indirizzo e
coordinamento era ormai agonizzante, incolpata non a torto d'aver affossato
l'esperienza regionale.
Nessuna di queste tre condizioni ricorre nel provvedimento solitario di Sacconi,
che dunque
suona illegittimo perfino rispetto al vecchio ordine giuridico. Ma nel 2001 la
riforma del Titolo V ha
soppresso ogni riferimento all'interesse nazionale e ha soppresso perciò le basi
su cui poggiava il
potere d'ingerenza del governo. Non solo: l'art. 8 della legge La Loggia (n. 131
del 2003) ha poi
ulteriormente precisato, a scanso d'equivoci, che gli atti d'indirizzo e
coordinamento sono vietati nel
campo della sanità. Sicché l'atto firmato da Sacconi è due volte
incostituzionale: sia per il passato
remoto che per il futuro prossimo. Anzi tre volte: perché oltre a offendere le
competenze regionali
calpesta la sovranità del Parlamento (soltanto una legge statale di principio
può intervenire in
materia sanitaria), e perché viola le attribuzioni del corpo giudiziario (sul
caso Eluana c'è ormai una
sentenza definitiva della Cassazione).
Insomma questo provvedimento non vale nulla, è come una legge promulgata dal
direttore delle
Poste. E allora a cosa serve? Semplice: serve a intimidire gli ospedali, a
ricattarli minacciando di
togliergli i quattrini, se non addirittura la licenza. E perché Sacconi, che è
persona seria, ci ha messo
in calce la sua firma? Ri-semplice: perché ha agito sotto dettatura. Non è
il primo caso, non sarà
purtroppo l'ultimo. È appena successo con i fondi per le scuole private, dopo la
protesta a
squarciagola della Cei: 120 milioni spariti e subito riapparsi con un
emendamento in Finanziaria.
Succede con la pillola del giorno dopo, la cui vendita al pubblico viene
rinviata di anno in anno, con
gran soddisfazione del Vaticano.
Diciamolo: c'è un Antistato dentro il nostro Stato. Le sue sentinelle, i
suoi stessi generali, sono
ormai i generali dello Stato italiano. Da qui l'impotenza della cittadella
burocratica, da qui la
complicità della politica: l'una e l'altra ormai espugnate dall'interno, e senza
neanche la fatica di
fabbricare un cavallo di Troia. Da qui la strage della nostra civiltà giuridica,
pur sempre figlia del
secolo dei Lumi, quando l'Antistato ha in odio le carte settecentesche dei
diritti, l'etica del dubbio, la
separazione dei poteri. Prima di consegnarci prigionieri, c'è però un Dio laico
cui possiamo chiedere
soccorso. E un giudice, e magari qualche volta può sbagliare. Ma giudica con la
stessa toga ministri
e cittadini. E nessuno ministro, così come nessun cittadino, ha il potere di
rovesciarne le sentenze.
Michele Ainis La Stampa 18
dicembre 2008
Il governo comanda
sulla vita?
Come minimo si può dire che il ministro Sacconi se l'è presa comoda, per
arrivare a proibire ad ogni
struttura sanitaria pubblica qualsiasi ingerenza nella fine della povera Eluana
Englaro che da quasi
diciassette anni giace inerte in corna, e del suo povero papà: sono ormai anni
che si discute di
questo caso penosissimo, è già un po' che un'alta sentenza ha autorizzato la
morte della vittima. Il
ministro, diciamo, si poteva risparmiare la comodità di arrivare all'ultimo
minuto, si poteva dare una
svegliata: ma anche quella sarebbe stata inutile, abusiva.
Una legge in proposito, infatti, non esiste. Che diritto hanno il ministro
o il magistrato di vietare o
consentire? In nome di che cosa, con quale autorità? Se ci si riflette un
momento, la politica e il
governo si sono già impicciati abbastanza nella vita privata dei cittadini,
hanno già compiuto
prepotenze poco sopportabili. Hanno stabilito se e dove e quando
possiamo o non possiamo fumare,
guidare l'auto, possedere la patria potestà sui figli, abitare in un Paese a
scelta (se appartenenti ad
altra nazionalità o a nessuna nazionalità), vedere un certo film eccetera: chi
compie una violazione a
queste regole viene punito, la volontà personale conta proprio nulla. E perché?
Perché dovremmo
per forza non diventare troppo grassi, star lontani dal tabacco e dall'alcol,
mettere il grembiulino in
seconda elementare, morire o non morire?
L'intrusione politico-pubblica in simili faccende non dipende dalla bontà dello
Stato che ama i suoi
cittadini e vorrebbe proteggerli come fossero bambini piccoli o persone
incapaci. Il fatto è che il
governo non è in grado (o non ha la volontà) di risolvere gli autentici problemi
(di sopravvivenza,
di lavoro, di alloggio) della gente, così si ostina a rompere le scatole a chi
già patisce a sufficienza,
a spadroneggiare su elementi secondari e superflui, a dare ordini a settori
sottratti ai suoi poteri, a
impicciarsi: tanto per mostrare che fa qualcosa, che qualcosa decide, che esiste
anche se si occupa
solo di leggi irrilevanti o personali. Ma la morte è la morte: attenzione, che
almeno lascino la gente
morire come vuole, come può.
Lietta Tornabuoni La Stampa 18
dicembre 2008