D'ogni stirpe un
Fascio
Non bastano gli anniversari a sciogliere i luoghi comuni. La celebrazione dei
settanta anni
dall’introduzione della legislazione antiebraica in Italia ha portato con sé
l’ennesima riproposizione
del mito del «bravo italiano», ora aggiornata nell’immagine di un razzismo come
«male assoluto»,
circoscritto agli anni 1938-1945 e contrapposto ad un fascismo «buono»,
espressione dell’interesse
nazionale e costretto alla violenza dal degenerare della situazione.
L’autoassoluzione collettiva alimentata da questa tesi agisce come un’arma
a doppio taglio. In
primo luogo, banalizza il progetto di rivoluzione antropologica inscritto
nell’ideologia e nella
politica del regime fascista, il mito della rigenerazione nazionale, il costante
impegno nel forgiare il
carattere e il corpo dell’«italiano nuovo». In secondo luogo, presenta il
momento razzista del
fascismo come uno stato d’eccezione, laddove esso andrebbe piuttosto
interpretato come un prisma,
attraverso cui osservare, sotto una nuova luce, l’intera vicenda nazionale.
L’antisemitismo cattolico ottocentesco e il colonialismo di età liberale sono
esempi forse troppo
noti, e non sono certo gli unici. Il processo di unificazione nazionale produce
quelli che Napoleone
Colajanni definirà ironicamente i «romanzi antropologici»: la differenza
razziale fra le «due Italie»
è chiamata a spiegare le cause dell’arretratezza socioeconomica del Mezzogiorno.
E se Cesare
Lombroso identifica nel brigantaggio la manifestazione più palese dell’«arresto
di sviluppo» dei
meridionali, per lo statistico Alfredo Niceforo è lecito parlare di «due stirpi
ben dissimili», tanto sul
piano fisico quanto su quello psicologico: i «mediterranei» al Sud e gli «arii»
al Nord. Nell’età del
positivismo, il Sud è la barbarie, l’Africa, l’animalità contrapposta alla
civiltà.
Anche il «mito ariano» non deve aspettare il 1938 per diffondersi nel contesto
culturale italiano,
soprattutto in ambito linguistico e antropologico. È il glottologo Angelo De
Gubernatis, negli anni
sessanta dell’Ottocento, a inserire l’italianità fra le manifestazioni del
«genio ario», contrapponendo
gli inni vedici indiani alla Bibbia letta e meditata dai «semiti». Ma di
arianità, in chiave etnologica,
discute anche Paolo Mantegazza, per il quale l’estetica dell’uomo ario è
indubbiamente superiore ad
«ogni tipo secondario di bellezza mongolica, americana, negra». Nel clima laico
e anticlericale della
seconda metà dell’Ottocento, è la figura più nota della cultura italiana - il
poeta Giosuè Carducci ad
invocare la «nobile razza ariana» dei «greco-latini» (e ovviamente degli
italiani) in opposizione
alla tradizione giudaico-cristiana degli «ebrei», i quali «non intendono, odiano
anzi, il bello
plastico».
Nel clima inquieto di fin de siècle, l’ingresso nello scenario politico delle
folle e delle classi
subalterne viene respinto anch’esso in termini razzizzanti: per Mario Morasso,
nel 1899, la
divisione tra classi non è altro che una «divisione etnica», dove il popolo è la
«razza vinta e
conquistata», mentre il governo è la «razza vittoriosa». Agli inizi del
Novecento, nazionalismo e
darwinismo sociale leggono le guerre dell’Italia liberale in termini di «scontro
tra razze». Nel
conflitto italo-turco, Enrico Morselli, nome illustre della psichiatria
positivista, scorge la possibilità
di una «non remota Etnarchia latina». Pochi anni dopo, la mobilitazione
antitedesca della prima
guerra mondiale è alimentata dalla denuncia dell’«atavica barbarie della razza
teutonica»,
reviviscenza, secondo lo psicologo Giulio Cesare Ferrari, di «un fondo atavico
pervenuto nella
razza germanica con la mistura di sangue asiatico».
Se, dunque, il razzismo di Stato affermatosi nel 1938 non è affatto un capitolo
della crociana
«invasione degli Hyksos», sul versante opposto anche il 1945 non individua una
cesura netta.
Tutt’altro. Non sono soltanto la mancata epurazione e i limiti nella
reintegrazione dei diritti delle
vittime a dare la misura della continuità.
È la lunga durata dei paradigmi scientifici e politico-ideologici il dato che
sembra
contraddistinguere il contesto italiano. Un esempio, fra i tanti possibili, è
rappresentato dalla
recezione italiana degli Statements on Race dell’Unesco. Concepite, nel 1948-51,
come uno
strumento per dimostrare l’infondatezza scientifica del concetto di razza, le
dichiarazioni non solo
non vengono tradotte in Italia, ma passano del tutto inosservate. Per contro,
non è irrilevante la
presenza italiana sul fronte opposto, tra le file della rivista The Mankind
Quarterly, organo
dell’associazione eugenetica e razzista americana, dal roboante nome di
International Association
for the Advancement of Ethnology and Eugenics, ostile tanto nei confronti delle
posizioni
antirazziste dell’Unesco quanto del processo di integrazione degli
afro-americani. Nell’Honorary
advisory board del periodico troviamo, all’inizio degli anni sessanta, il
demografo Corrado Gini, il
genetista Luigi Gedda, l’antropologo Sergio Sergi, il fisiologo (e ben noto
politico democristiano)
Gaetano Martino. A questi nomi si aggiungeranno successivamente quelli di
Giovanni Tucci,
Giuseppe Genna, Mario Cappieri. Il segno della continuità è del resto sancito da
un’opera
monumentale come Le razze e popoli della Terra di Renato Biasutti, testo in più
volumi che, dal
1941 al 1967, conosce ben quattro edizioni, mantenendo pressoché invariato il
proprio impianto
razziologico.
In quest’ottica, finisce per non destare stupore il fatto che ancora oggi
il Museo di Antropologia ed
etnografia di Torino sia intitolato a Giovanni Marro. Quello stesso
Marro che, sulle pagine de La
Difesa della razza, descriveva il Giuda giottesco della Cappella degli Scrovegni
come lo specchio
dell’inferiorità biologica dell’«ebreo»: «dai capelli crespi, dalla barba
deficiente, dal colorito della
cute scuro; dalla mandibola voluminosa con mento sporgente; dal forte
prognatismo globale che
maggiormente accentuano le labbra grosse, tumide, arrovesciate; dal naso
depresso alla radice; dallo
sguardo torvo, crudele e freddo».
Francesco Cassata La Stampa
12 dicembre 2008