La fede non è un distintivo


Simone Weil parla di un «disagio dell'intelligenza» che affligge il Cristianesimo fin dai suoi inizi,
ed è dovuto «alla maniera in cui la Chiesa ha concepito il suo potere di giurisdizione». E parla in
questo contesto della necessità di «pensare da capo la nozione di fede». Da capo, di nuovo.


A proposito della questione di che cosa definisca una determinata fede: possiamo constatare che
ogni volta che questo disagio si fa acuto ci si trova a non aver più nomi per il divino, a non aver più
proposizioni per la fede. Non è questa, in fondo, la situazione dei più fra noi, oggi? E non da ora,
certamente. Siamo nati in un mondo in cui i nomi di Dio sembravano abusati e le proposizioni a
riguardo prive di luce. Ma se invece che dell'ancora più abusata "morte di Dio" parlassimo di una
caduta di falsi nomi descriveremmo con più esattezza quello che accade.
Accade che il divino non
ha più nomi, e lo smarrito ma felice consentirvi non ha proposizioni in cui enunciarsi. Non perché il
vento "che soffia dove vuole" abbia mai smesso di soffiare, e di incendiare alcune vite umane: ma
perché troppi dei nomi e troppe delle proposizioni tramandate hanno alle nostre orecchie un suono
falso. Non dunque perché venga meno l'amore di verità, ma proprio al contrario, perché questo
amore si fa più intenso ed esigente man mano che si cresce - e se non ci fosse amore di verità - nulla
potrebbe suonare falso. Ma allora questo dissociarsi dell'essere e del dire possiamo vederlo come un
vero e proprio, doloroso e forse a sé ancora ignoto, rinnovarsi del nostro essere in relazione al
divino. E se la vediamo così non possiamo non vederla anche come l'inizio di un rinnovamento. E
allora, guardandoci all'indietro, vediamo che così sempre è avvenuto.

Ogni volta che il sentimento del divino si è rinnovato perché, in una nuova maturità umana, si è
approfondito; ogni volta che la luce di un uomo divino ha fatto sì che improvvisamente, come
all'individuo avviene per effetto d'amore, si allargasse e approfondisse la visuale di una comunità
umana sul massimo valore - ogni volta che questo è successo, i vecchi nomi sono come caduti, e un
Dio ignoto, nascosto, segreto, è stato annunciato.
Non lo ha fatto anche Paolo di Tarso, che proprio
questo Dio ignoto, al quale già il Pantheon antico aveva fatto posto, disse di voler annunciare?
Nello splendido dialogo fra un Pagano e un Cristiano che Nicolò da Cusa intitolò De deo abscondito
si vede il Cristiano fondere in lacrime d'amore di fronte al Dio che ignora. Di cui non può dire
che esista, perché certamente non esiste al modo in cui esistono tutte le cose finite, cioè nel solo
senso che associamo alla parola. Né può dire che non esista, perché quell'amore non è illusorio se
cambia la vita di chi ne è preso, e magari fa spostare le montagne e vedere i ciechi. Quasi con le
stesse parole Simone Weil descrive il Dio segreto, ricordandoci anche le parole del maestro: «Il
Padre vostro, che abita nel segreto». Forse per questo anche lei ricorda con un sospiro il sogno
universalistico, veramente "cattolico" di Nicolò da Cusa.

Guardiamo a questa possibilità dal punto di vista della filosofia. Allora dovremmo dire che la parte
forse più permanente di questo mestiere è il suo contributo anti-idolatrico, è cioè proprio di
mostrare il falso che c'è nel pronunciare il nome di Dio invano.
Ma guardiamo a questa possibilità
anche dal punto di vista di quella fede senza parole di cui si diceva sopra. «Senza parole», appunto,
perché? Non forse perché il moto con il quale quella che appariva come verità trascendente si
scopre trascendente ogni verità formulabile in parole umane? Ecco di nuovo Simone Weil: «Quando
l'intelligenza, avendo fatto silenzio per lasciare che l'amore invada tutta l'anima, ricomincia
nuovamente a esercitarsi, essa si scopre contenere più luce di prima, più capacità di afferrare gli oggetti
- le verità - che le sono propri». Non sarà questo movimento interiore, dal silenzio a un'intelligenza
nuova, non del cielo, ma della terra, il rinnovamento costitutivo di ogni autentica esperienza
religiosa? Non nella lingua di fuoco dei mistici, ma nel discreto latino di Tommaso d'Aquino il
nome di Dio è detto il nomen incomunicabile, tale cioè che pronunciarlo è nominarlo invano.

E se tutto questo non è completamente erroneo, allora il vero pagano non è quello che chiede
un'etichetta, una carta di identità confessionale, una dichiarazione di appartenenza? Non dovrebbe il
cristiano fuggire a gambe levate, come al tempo in cui i Padri si scalzarono e corsero nel deserto
terrorizzati, quando gli si chiede di identificarsi pubblicamente, quando addirittura gli si chiede di
militare con distintivi e bandiere, di farsi popolo sulla pubblica piazza?
 

Roberta De Monticelli       Il Sole-24 Ore 2 novembre 2008