L'eterno ritorno dei cattivi maestri


All'appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro
vero nome, leggi razziste - l'Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua
popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del
regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano. Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di
sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male
assoluto. Il veleno dell'argomento è scoperto, ingenuo.
«Assoluto» è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell'ideologia nazista. Così quelle
leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza
italica all'autoassoluzione è antica e ben nota. Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che
operarono nell'Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a
ricordarle non la minaccia di un ritorno dell'antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che
oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell'immigrato: si tratta piuttosto di
capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa
italiana. La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio
nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della
scuola e quelli della Chiesa.
Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture
e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte. E la mancata elaborazione di quel
passato ne è insieme sintomo e causa.
Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. «Priebke? Boh!»: così hanno
reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza
dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l'idea di invitare come testimonial quella cariatide di
assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i «mostri» della cronaca nera - se non fosse
che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più. Altro che memoria divisa. Il fiume
di un'opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha
cancellati.

La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui
l'Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l'immagine negativa della politica
e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del
ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide
videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un
partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri). Emanuele
Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa
oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi
cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da
ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l'importanza della scuola per l'attuazione
delle leggi del 1938. Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si
vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da
cattivi compagni. L'espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5
settembre 1938 col Regio decreto n. 1390: «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola».
Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo
più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora
l'Educazione Nazionale. Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori
ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don
Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di
comando della scuola dettero prova di una durezza e di un'efficienza insolite.
Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure
i professori. Dov'erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci
permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l'efficienza dimostrata
allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore.
Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di
nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone. Quando
venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri
fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata
dall'università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che
la professoressa portava con sé le offrì una via d'uscita prima di salire sul treno per Auschwitz.


Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da
quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della «razza italiana». Era un'ambigua mistura di
fumisterie idealistiche e di termini religiosi.
Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la
coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane
dopo il Concordato del '29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l'unilateralità delle
reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la
legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI. Si tratta di
capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l'antica, la plurisecolare
tradizione di diffamazione degli ebrei e dell'ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e
diffusa dall'alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia.
Bisogna tornare a
scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune.
E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di
rilegittimare il fascismo. Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti
dell'intolleranza e dell'ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese
vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un
insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità
dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso.

Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall'intolleranza
niente toglie all'urgenza del problema. Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica
merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. «Se si pensa a com'è
disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli - e a com'è fragile davanti ai cattivi maestri... ».

Adriano Prosperi     la Repubblica  1 ottobre 2008