Se cade il tabù del razzismo


Ancora una volta è la Chiesa a ricordarci dove sta il giusto e lo sbagliato e ad ammonirci che l'Italia
tradisce i diritti umani. La politica (quella del governo) è non soltanto insensibile al giusto ma è colpevole di non perseguirlo.

È colpevole di violare i diritti fondamentali promuovendo una legislazione e un'ideologia che sono razziste nei contenuti e nello spirito, perché escludono e criminalizzano chi ha come unica colpa quella di non essere "uno di noi". La parola razzismo
spaventa, ma deve essere pronunciata, ha scritto molto giustamente Stefano Rodotà su Repubblica
di qualche giorno fa. Deve essere pronunciata anche perché questa, solo questa, è la parola che
riesce a descrivere quello che sta succedendo con sempre più frequenza nelle nostre città.
Ovviamente, non è razzista la città di Milano o la città di Roma - razzisti sono gli individui quando
usano un linguaggio che offende gli altri, i diversi. Negli anni '60 erano razzisti molti italiani del
Nord verso gli italiani del Sud - ancora oggi, tra il lessico razzista in uso presso i leghisti, è facile
trovare la parola "terrone". Gli italiani del Sud erano allora l'equivalente dei neri di oggi: fatti
oggetto di parole offensive e denigratorie.
Non è necessario che al linguaggio segua la violenza perché ci sia razzismo e perché ci sia
comportamento violento. Il linguaggio può fare violenza oltre che istigare alla violenza.

E il razzismo è un linguaggio violento. È una forma di violenza che è prima di tutto un modo di pensare
che riceve energia dalla pigrizia mentale. Il pregiudizio (del quale il razzismo si alimenta), vive
della nostra inettitudine mentale e della nostra faciloneria, perché è poco faticoso associare molte
persone sotto un'unica idea: tutte insieme senza distinzioni individuali, solo perché nere o asiatiche
o mussulmane. Al razzista questi aggettivi dicono da soli tutto quello che egli vuole sapere senza
fare alcuno sforzo ulteriore di conoscenza, osservazione, distinzione, analisi. «Sei nero, allora sei
anche A, B, C». Questa faciloneria rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno
d'accordo, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda e accorgendosi che
non sono soli a pensare in quel modo concludono che hanno ragione, perché la maggioranza ha
ragione. Proprio perché genera emulazione il razzismo è facilmente portato a espandersi;
l'atteggiamento razzista non è mai "un fenomeno isolato" perché se una persona ha il coraggio di
rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull'appoggio dell'opinione pubblica.
Ecco
perché quando si legge a commento di un fatto di razzismo che si tratta di "un fenomeno isolato" si
resta allibiti (io resto allibita): perché il commento è sbagliato e figlio della stessa faciloneria di chi
ha commesso il fatto.
Questa è una osservazione di grande importanza, un'osservazione che si può comprendere prestando
attenzione a quello che con superficiale supponenza molti osservatori italiani criticano degli Stati
Uniti: il "politically correct". L'idea che ci si debba vergognare di usare un linguaggio razzista in
pubblico (questo è il "politically correct") riposa sull'osservazione ben documentata che l'escalation
di comportamenti riprovevoli è indotta dal consenso (anche implicito o tacito) da parte degli altri.
Se so di essere in minoranza quando dico "sporco negro" mi guardo bene dal dirlo in pubblico. I
moralisti tacciano questa strategia educativa di ipocrisia dimostrando così di non capire che molto
spesso i vizi privati (e l'ipocrisia è un vizio) sono facitori di virtù pubbliche.
Ha scritto Jon Elster che una delle molle psicologiche che ha reso la deliberazione pubblica
possibile (e con essa il radicamento della democrazia) è stata proprio l'ipocrisia, la quale ha per
questo, quando esercitata nella sfera pubblica, una funzione civica. Qual è infatti quel deputato che
in Parlamento ha il coraggio di dire apertamente di essere lì a rappresentare un interesse fazioso o
l'interesse di qualcuno, che vuole fare leggi per se stesso e i suoi interessi? Sappiamo che questi
comportamenti sono tutt'altro che rari eppure è raro che vengano così pubblicamente confessati.
Anche chi è lì a rappresentare solo se stesso giustificherà le proprie proposte di legge con
l'argomento dell'"interesse generale". Certo, è ipocrita; ma è un'ipocrisia che mentre mostra che quel
deputato è inaffidabile denota anche un fatto di grande valore: che l'opinione generale ritiene ancora
che sia l'interesse generale a dover essere perseguito dai rappresentanti non quello privato o della
propria fazione. Insieme alla doppiezza del deputato, l'ipocrisia rivela, se così si può dire, una certa
solidità della cultura etica democratica. Il problema sorge quando non c'è più ipocrisia, quando il
deputato non ha alcun ritegno a dire apertamente la ragione vera della sua elezione.


L'autocensura del "politically correct" presuppone una società nella quale il razzismo non è
un'abitudine mentale della maggioranza. Ma una società nella quale ciascuno sa di poter
apertamente essere razzista senza venir mal giudicato o redarguito (punito cioè con la
disapprovazione pubblica) è a rischio di barbarie. L'Italia ha di fronte a sé questo rischio. Sarebbe
sbagliato mettere la testa sotto la sabbia o rifiutare di vedere.
E ancora più sbagliato scegliere la
strada assolutoria. Prima che alla violenza, e proprio affinché questa venga scongiurata, è quindi al
linguaggio che occorre prestare attenzione, perché esso è il veicolo primo e più potente del
razzismo, proprio a causa della natura del linguaggio, un mezzo con il quale costruiamo l'oggetto di
riferimento e il suo significato, una costruzione che è condivisa da altri e imitativa, non privata e
personale.
Il linguaggio può essere usato per deumanizzare o onorare, per spogliare della dignità o per dare
dignità.
Per stimolare comportamenti violenti o comportamenti civili. Per questa ragione tutti coloro
che svolgono servizi di responsabilità collettiva - dai politici agli insegnanti ai giornalisti agli
operatori dello spettacolo - devono sentire tutta la gravità del loro ruolo: perché le loro parole
circolano più estesamente e velocemente di quelle di tutti gli altri cittadini e perché essi creano
modelli di comportamento. Il fatto gravissimo è che in Italia, sui giornali, in televisione e perfino in
Parlamento, si fa a gara per tirar fuori la parola più razzista o l'espressione più volgare e
intollerante. E il pubblico ride, senza rendersi conto che ridicolizza se stesso per l'insipienza con la
quale questa sua noncuranza trascina la società in una spirale di disunione e violenza, con prezzi
altissimi per tutti, anche per i razzisti.


Nadia Urbinati       la Repubblica  25 settembre 2008