Il lungo ciclo delle
prese di posizione pubbliche di Papa Ratzinger, tra il discorso di
Ratisbona (settembre 2006) e il solenne ricevimento all’Eliseo a Parigi
(settembre 2008), si chiude con un successo di attenzione mediatica. Il
Papa ha ribadito che il contrasto principale di oggi è tra «religione e
laicismo». Nel contempo ha evocato benevolmente una «laicità positiva»
lasciandone tuttavia indeterminati i contorni. A scanso di equivoci,
però, lontano da Nicolas e Carla, ha invitato i Vescovi a non benedire
«le unioni illegittime». Tutto deve tenere.
Sembra essersi affermata nell’opinione pubblica l’idea che ci sia il
pericolo di una illegittima esclusione dalla sfera pubblica della
religione, della Chiesa, del cristianesimo, di Dio (con una intenzionale
o preterintenzionale confusione e sovrapposizione di questi concetti).
Naturalmente questo non risponde a verità. Quanto meno occorre
distinguere tra la situazione francese e quella italiana. Da noi molti
cattolici coltivano la sindrome della vittima: costante presenza
mediatica accompagnata dal lamento dell’esclusione; denuncia della
critica e del rifiuto delle loro opinioni come prova dell’ostilità verso
il cristianesimo-cattolicesimo, verso la Chiesa, anzi verso Dio.
Da qui l’equivoco di scambiare il dissenso ragionato verso aspetti -
naturalmente importanti - della dottrina della Chiesa e della sua
strategia come inimicizia preconcetta contro la religione o come ateismo
militante. Magari si prende occasione dall’atteggiamento di
alcuni laici, del tutto legittimamente atei, che con le loro posizioni
polarizzano su di loro l’attenzione dei media e della Chiesa.
Ma dove passa la differenza tra laicità positiva e laicismo? In
concreto: nella definizione della famiglia «naturale», nei temi connessi
a quella che viene genericamente chiamata eutanasia, nei problemi
cruciali della bioetica? Chi non è d’accordo sul lungo elenco dei «no»
degli uomini di Chiesa - dalle coppie di fatto alla sospensione
dell’alimentazione forzata nel caso di Eluana - è dichiarato laicista.
Chi invece è d’accordo è laico positivo. Come si possono schiacciare in
queste caselle le convincenti considerazioni di Barbara Spinelli su
«quando muore il cervello» (La Stampa 14 settembre)?
Ma c’è un altro malinteso. In Italia si sta estinguendo il dialogo, se
con esso miriamo allo scambio di ragioni e di argomenti. Se lo
intendiamo come la ricerca della verità su questioni complesse, dove
ognuno degli interlocutori dovrebbe essere disposto a mettere in gioco
le proprie convinzioni. No: il dialogo è diventato sinonimo di rassegna
e competizione di posizioni già predisposte in funzione identitaria
(cattolici contro laici). In particolare per gli interlocutori religiosi
la verità c’è ed è intrattabile. Ma questo avviene sulla base di un
passaggio logico non esplicitato: l’incontrovertibilità della verità
passa impercettibilmente dal piano della «rivelazione religiosa» ai temi
della «natura umana» che dovrebbero essere invece affrontabili con
strumenti razionali e scientifici presuntivamente comuni e accessibili a
tutti.
La Chiesa in questi anni di esposizione pubblica è riuscita a
riaffermare la credibilità della sua dottrina naturale. Il costo (non
detto e persino non percepito da molti Pastori) è che non si parla più
davvero di teologia ma di antropologia, come si sente ripetere in
continuazione. Il problema che sta a cuore non è la questione di Dio, ma
l’idea di natura umana e di razionalità (nel senso inteso da Ratzinger)
che passa surrettiziamente dietro e dentro l’idea di Dio quale è
codificata nei termini tradizionali della dottrina. Il laico che solleva
questa problematica è etichettato senz’altro come laicista. Con lui si
polemizza, non si dialoga.
A questo punto confesso d’aver perso il senso della distinzione
benevola-polemica tra laicità positiva e laicismo. Secondo lo stereotipo
corrente il laico-laicista è il non-credente, il razionalista («arido»,
naturalmente), lo scettico cultore del dubbio metodico, relativista
rispetto ai valori, l’uomo senza speranza. Inutile dire che queste sono
caricature clericali. In realtà oggi il laico (senza bisogno di
sentirsi definire «positivo») non condivide più la «religione della
ragione» settecentesca, la «religione dell’idealismo» di stampo
ottocentesco, neppure quella della scienza novecentesca, anche se tiene
ben fermi come criteri di certezza quelli offerti dal metodo
scientifico. Di conseguenza si pone interrogativi su Dio che appaiono
incompatibili con la dottrina corrente della Chiesa.
Il laico è l’uomo/la donna delle certezze che sanno di essere
radicalmente contingenti, ma non per questo meno stringenti. È l’uomo/la
donna della ragionevolezza, cioè della razionalità temperata da ciò che
non appare riducibile alla semplice strumentazione scientifica. Ma non
per questo accetta dottrine costruite su modelli mentali e antropologici
storicamente elaborati con mentalità pre-scientifica (o addirittura
anti-scientifica) che pretendono accesso privilegiato alla trascendenza.
Il confine tra razionale e irrazionale è precario, ma sempre
definibile con gli strumenti della ragione. L’orizzonte della ragione e
delle sue espressioni semantiche è intrascendibile. La fede non vi trova
posto. Questa è la lezione irrinunciabile da Kant a Wittgenstein, due
studiosi che non si dichiaravano affatto atei ma ponevano la fede nella
«ragione pratica» o nell’ambito delle «forme di vita». Chi ragiona così
è un laicista o un laico positivo? Francamente questa distinzione, che
pretende diventare una graduatoria della razionalità, è insostenibile.
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