IL PIÙ CATTOLICO DEL REAME
La Conferenza episcopale
italiana si comporta ormai come una forza politica: indica i suoi obiettivi,
lancia le sue campagne, stringe alleanze e attacca gli avversari. Gli attori
«veri» della politica, con poche eccezioni, fanno a gara per avere la sua
approvazione. Anche nel centrosinistra.
La gara è aperta. A pochi mesi dalle elezioni politiche il dibattito politico è
condizionato come da tempo non accadeva dal «fattore C», cattolici.
Evidentemente pesa una certa interpretazione dell’esito del referendum sulla
procreazione medicalmente assistita: la Conferenza episcopale italiana è una
forza in campo, ha vinto il referendum, orienta voti. E quindi ben attenti a non
porsi in contrapposizione con i suoi vertici; al contrario, fare di tutto per
accreditarsi, magari proclamando ai quattro venti la propria cattolicità.
Non c’è nulla di male. Ma ci sono modi, tempi e luoghi. Prendiamo la controversa
questione dei Patti civili di solidarietà (Pacs) per le coppie di fatto. Già a
luglio Romano Prodi aveva affermato che « l’orientamento verso i patti di
tipo francese è di tutta la coalizione. Sui singoli articoli si può discutere ma
solidarietà e riconoscimento dei diritti civili per i gay ci guidano verso un
orientamento comune». Bene, bravo da autorevoli leader dello schieramento di
centro sinistra. Passa l’estate e a settembre il leader dell’Unione ribadisce la
sua posizione. E iniziano i problemi. Il primo a bacchettarlo è Francesco
Rutelli che si dissocia contrapponendo ai Pacs i Ccs, contratti di
convivenza solidale. Diversa la sigla, diverso il contenuto giuridico. I Ccs
sono semplici contratti di diritto privato stipulati tra i contraenti, anche se
– precisa Rutelli il 19 settembre – si possono codificare nel codice civile».
Che Rutelli punti ad accreditarsi come il cattolico di fiducia all’interno dello
schieramento di centrosinistra non costituisce novità di rilievo. Stupisce
semmai che il 27 settembre, mentre Prodi è ancora sotto il tiro incrociato della
Casa delle libertà e della Cei per avere ipotizzato i «matrimoni gay», Piero
Fassino abbia voluto parlare della sua fede cattolica. «Sono stato per nove
anni allievo dei gesuiti a Torino – ha dichiarato ai giornalisti – e questo mi
ha consentito di rafforzare la mia fede religiosa. Ed essere un uomo di sinistra
non è in contraddizione con la fede perché significa battersi per la giustizia,
l’uguaglianza, il rispetto della persona umana, che sono valori a cui è attenta
una fede religiosa come quella cattolica».
E nel settembre «dell’identità cattolica» ha voluto dire la sua anche il
presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, che a Napoli, «parlando
da cattolico», ha affermato che «la posizione incarnata dai vertici della Cei fa
male alla Chiesa esponendo il magistero su un terreno improprio. L’atteggiamento
assunto a proposito dei Pacs – ha detto – scortica l’integrità del messaggio
evangelico perché diventa troppo un pezzo della politica. Il Vangelo non diventi
mai uno strumento di lotta e un corpo contundente da poter usare contro i
diritti delle persone». Amen. Ma chi di omelia ferisce di omelia perisce. E
subito è giunta la replica di mons. Cosmo Francesco Ruppi, arcivescovo a
Lecce: «Non è nostra intenzione entrare in polemica con chi, pur dichiarandosi
cattolico, si scosta visibilmente dall’insegnamento della Chiesa in materia di
famiglia, di etica e di costumi sessuali», ma «non è possibile essere cattolici
e disattendere il magistero. O si è cattolici o non lo si è, non si può essere
cattolici a metà quando ci conviene». «Da credente rispondo a Dio, non al
vescovo di Lecce», ha controreplicato Vendola, ma resta il dubbio se il
governatore di una istituzione pubblica debba necessariamente avventurarsi in
queste dispute ecclesiali e teologiche sventolando il suo vessillo di identità
cattolica.
E persino Fausto Bertinotti, marxianamente ateo sino a qualche anno fa,
oggi si confessa assai più incerto «su un tema così delicato come è l’esistenza
o meno di Dio. Non nego – ha dichiarato a Palermo il 29 settembre nel corso di
un convegno teologico organizzato dai padri redentoristi – che ora sono
impegnato in una ricerca che si ferma al limite del fenomeno religioso. È un
continuo interrogarmi nei sensi, nel mio intimo, con il mondo esterno, con gli
altri. È una ricerca sul fenomeno religioso nel senso pieno del termine. Ma non
mi pongo la domanda se credo o non credo. Mi sono sempre interessato alla Chiesa
del Concilio e ho tanti amici di Chiesa, anche tra i cardinali».
Teocon e teoprog
Insomma ai teocon all’italiana della Casa delle libertà, nel centrosinistra si
contrappone uno schieramento di teoprog sempre più nutrito e professante.
Personaggi da sempre legati al mondo cattolico e al suo associazionismo come
Giovanni Bianchi e Rosy Bindi (Margherita), Livia Turco e Giulia Rodano (Ds), lo
stesso Romano Prodi, oggi rischiano di apparire marginali rispetto al rapporto
con la Conferenza episcopale italiana. Dopo gli atei devoti anche i progressisti
devoti? «Sono vecchie abitudini e debolezze che persistono anche nel centro
sinistra – commenta con la saggezza di chi ha visto molte giravolte politiche
Tullia Zevi, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane – e
tuttavia è anche vero che il mondo cattolico non sembra ancora saper dimostrare
una palese disponibilità all’ascolto».
E infatti la Cei, compatta come raramente è accaduto, va avanti per la sua
strada. E niente fa pensare che, acquisita la vittoria referendaria, intenda
retrocedere da un protagonismo politico impensabile ai tempi della Dc. Pacs,
legislazione sull’aborto, RU486 (pillola abortiva), finanziamento agli istituti
cattolici, detassazione Ici anche per le proprietà ecclesiastiche che producono
reddito (ostelli, case di riposo, ospedali, scuole…) costituiscono la
piattaforma di una campagna d’autunno gestita in prima persona dai vertici
dell’episcopato italiano: «La Chiesa non si lascia intimidire» ha detto il suo
segretario, mons. Giuseppe Betori, a conclusione dei lavori del Consiglio
permanente dei vescovi italiani. E, sin qui, Betori aveva mantenuto un
atteggiamento più moderato e defilato rispetto a Ruini. «Gli interventi della
Chiesa non possono in alcun modo essere considerati un’indebita interferenza e
tanto meno un’ ingerenza nella vita del paese – ha concluso – e rappresentano
piuttosto il costruttivo contributo del cattolicesimo al bene e allo sviluppo
della nostra amata nazione». Insomma, siamo solo agli inizi.
Di fronte a questo dibattito e a questo confronto i fischi di un gruppo di
studenti al cardinale Ruini appaiono un gesto di eccezionale quanto inefficace
ingenuità. Come si diceva un tempo, certamente «il problema è politico», ma oggi
dobbiamo ammettere che è anche «culturale». In Italia la cultura laica della
distinzione tra Stato e Chiesa è assai più fragile che altrove. È quasi
paradossale che a parlare di Stato laico siano rimasti Oscar Luigi Scalfaro e
pochi altri, mentre gran parte della classe politica italiana insegue i vertici
della Conferenza episcopale su di un piano per essa molto scivoloso. Riconoscere
diritto di orientamento e di veto a una confessione religiosa su alcuni temi –
per ora quelli etici – significa colpire a morte il principio di autonomia laica
delle decisioni politiche. D’altra parte ha gioco molto facile il mondo
cattolico a rilevare che a sinistra piace il Vaticano che critica la guerra in
Iraq e dispiace lo stesso Vaticano che parla di difesa della vita in tutte le
sue forme. Insomma la laicità a giorni alterni non funziona.
Debolezza della politica
Per questo i temi della laicità appaiono assolutamente centrali nel dibattito di
questi mesi e dovrebbero diventarlo ancora di più nel corso della campagna
elettorale.
«Come evangelico sostengo il pieno diritto di qualunque confessione religiosa e
di qualunque movimento di opinione di esprimere il proprio parere sui temi
dell’attualità politica, sociale e culturale – ci dice Gianni Long
presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia – e in questo
senso quando la Conferenza episcopale rivendica la propria libertà di opinione
non posso che essere d’accordo. Il problema è il puntuale, secondo me davvero
troppo puntuale, allinearsi delle forze politiche di ambedue gli schieramenti. È
veramente difficile trovare qualcuno che faccia eccezione e quando Roma locuta
est, causa finita est, diceva il diritto canonico: se si è pronunciata la
Conferenza episcopale italiana allora il legislatore deve necessariamente
adeguarsi. Questa mi sembra chiaramente una degenerazione politica. In Italia
questo è il vero problema della laicità dello Stato».
Non teme di parlare di ingerenza della Cei Tullia Zevi: «Sì, è ingerenza nella
misura in cui i vertici della Cei considerano proprio diritto-dovere
pronunciarsi ufficialmente nelle vicende politiche italiane». Preoccupate anche
le valutazioni del leader di un’altra comunità di fede presente in Italia: «La
discussione di questi giorni sull’interventismo della Chiesa cattolica, sui
fischi e sulle contestazioni al Cardinale Ruini mi sembrano il sintomo
preoccupante di una laicità ancora incompiuta – ci dice Franco Di Maria,giurista
e presidente dell’Unione induista italiana. – Incompiuta a livello culturale,
ancor prima di esserlo su quello normativo. Questa incompiutezza è figlia di una
classe politica che, salvo qualche eccezione, appare così pavida e prudente da
risultare ambigua, incapace di distinguere il pubblico dal privato. Sovente,
anzi, sembra esposta a una sorta di dovere di “riparazione” nei confronti del
mondo cattolico. Ed è appunto questa incompiutezza che ci costringe a discorsi
che dovrebbero essere scontati. È ovvio che la Chiesa cattolica – come chiunque
altro – ha pieno diritto di esprimere le proprie opinioni su qualunque tema essa
reputi rilevante. Ma pari diritto, dunque anche quello al più radicale dissenso,
compete a qualsiasi interlocutore Tanto più quando la gerarchia si rivolge non
già soltanto ai suoi fedeli ma ai cittadini e ai politici italiani».
Ma i politici avvertono un’ingerenza da parte della Cei? «Ingerenza no, mi pare
troppo – risponde Franco Monaco, cattolico formatosi e cresciuto alla
scuola del cardinale Martini, vicepresidente del gruppo della Margherita alla
Camera e ulivista doc. – Parlerei di una sovraesposizione dei vertici Cei. Una
sovraesposizione che non giova alla Chiesa cattolica perché la distrae dalla sua
missione più propria, quella dell’evangelizzazione, cioè della formazione
cristiana di coscienze e comunità. Magari alimentando in essa la fuorviante
illusione che a una maggiore influenza politico-legislativa delle gerarchie
corrisponda una positiva regressione, che non vedo, nei processi di
scristianizzazione della società italiana. Non giova alla politica, perché mette
in moto una sorta di goffa rincorsa all’accreditamento come referenti
privilegiati delle gerarchie e perché potrebbe attivare il circolo vizioso di un
clericalismo che alimenta un laicismo uguale e contrario».
Ma tutto questo non è preoccupante e grave? «In verità, l’approccio strumentale
è di gran lunga più praticato e diffuso nel centrodestra. Penso alla
ostentazione di sigle e di biografie cattoliche, penso alla difesa d’ufficio
delle gerarchie, penso alla conversione teocon di non credenti sino a ieri
dediti a un laicismo militante. Certo, qualche tentazione si affaccia anche
nell’Unione – ammette – ma va respinta. L’Unione non si può permettere una sorta
di “divisione del lavoro” interna tra laicisti e clericali. Essa deve mirare a
una sintesi culturale prima che politica, ispirata a una laicità matura,
positiva, non escludente la dimensione religiosa nella sua valenza universale,
etica e umanistica. Questa è la sfida. Ed essa presuppone un positivo, fecondo
dialogo con la Chiesa stessa e i suoi pastori. Non ci si deve rassegnare a
occasionali incomprensioni o a pregiudizi incrociati».
Ma perché in Italia è così difficile parlare di laicità? «È un problema
culturale – prosegue Monaco. – Si tratta di rimuovere i residui di un
anacronistico laicismo e di accedere a una laicità intesa sì come distinzione di
ambiti istituzionali, ma anche come spazio pubblico nel quale praticare un
confronto-dialogo con il portato di tutte le esperienze culturali e religiose.
Quella che Ricoeur chiamava la “laicità del confronto”».
E già il fatto di doverla qualificare dimostra che la parola «laicità» oggi non
basta più a definire un principio ed una norma. Lo afferma anche Di Maria,
secondo cui «qualunque sia il senso da attribuire a questo termine, e se ne può
ovviamente discutere; i problemi che il presente ci propone richiedono
pacatezza, studio, dialogo, sobrietà e soprattutto l’interiore convincimento che
nessuno ha il monopolio dell’etica e della rettitudine. E che, dunque, un’etica
che pretendesse di utilizzare il diritto come proprio braccio armato negherebbe,
fin dalle fondamenta, l’esistenza di uno Stato laico».
Ma una chiesa o una comunità religiosa può essere «laica»? «Può ragionare e
comportarsi laicamente – risponde Long. – Ma ancora più importante è che
riconosca che su alcuni temi etici e morali – pensiamo ai temi della famiglia,
delle convivenze, delle scelte in campo bioetico – non si può affermare: “questa
è la verità evangelica” o “questa è la volontà di Dio”». La verità di Dio è di
Dio. Tutto il resto è di Cesare.
di Paolo Naso. Dal numero di novembre del mensile Confronti. L'autore è il direttore della rivista. (hanno collaborato Alessia De Rossi e Daiana Asta)