Il vero
cattolicesimo è compatibile con la critica
Benedetto XVI continua ad affermare che le convinzioni proprie
del cattolicesimo devono aprirsi
alla ragione, e che la teologia deve essere non solo intelligibile ma anche
argomentata. Allo stesso
tempo si scontra col sospetto persistente di difendere una visione oscurantista
del cristianesimo.
Come spiegare questo paradosso? Senza dubbio col fatto che Benedetto XVI
non include nella sua
definizione della ragione ciò che il nostro tempo per lo più vi associa, e cioè
lo spirito critico.
Il discorso cattolico non è sicuramente irrazionale, nel senso che non è
puramente emotivo né si rifà
ad una adesione solo letterale alle Scritture e alla tradizione. Ma,
almeno nella sua versione
“ratzingeriana”, è malato di irrazionalità per il fatto che nega, a priori e per
principio, ogni
legittimità alla critica che ne facesse il suo oggetto.
La coscienza contemporanea considera generalmente che una convinzione è degna di
stima solo se
è liberamente ratificata e non deriva dalla tutela di un maestro. Considera
inoltre che questa
convinzione è credibile solo se è capace di sostenere un dialogo leale con un
interlocutore che sia
allo stesso tempo in disaccordo e di buona volontà. Invece, l'atteggiamento
abituale del magistero
romano contravviene alla lettera a questa concezione di ciò che è una
convinzione razionale. Da un
lato, l'autorità ecclesiastica pretende di essere unico giudice della verità.
Dall'altro, non fa del
dibattito un mezzo di autenticazione della fede, ma ritiene quest'ultima
un'adesione senza sfumature
ad un catechismo definito dall'alto e una volta per tutte.
Tuttavia, ciò che sorprende di più non è l'indifferenza della Chiesa nei
confronti delle interpellanze
esterne, ma il modo in cui si immunizza nei confronti del dibattito interno. Il
pensiero indipendente
non sembra aver diritto di cittadinanza all'interno del cattolicesimo. Più
precisamente, sembra
essere impensabile oggi cercare di risolvere i disagi legati al discorso del
magistero con delle
discussioni pubbliche, pacifiche e costruttive. In nome dell'unità, l'esplicitazione
del dissenso è
demonizzata e si vede sempre preferire l'obbedienza cieca. I cattolici
sono pregati di tacere le loro
perplessità e, a meno di decidere di andarsene, di rinunciare ad ogni idea di
libero esame.
Se si è estranei alla credenza cristiana, si concluderà che la chiusura della
Chiesa nei confronti del
dibattito è una componente inevitabile della sua identità. L'illusione
religiosa, infatti, non potrebbe
esprimersi che in un modo dogmatico poiché, a causa proprio della sua fragilità,
non potrebbe
sopportare la contestazione. Dal punto di vista del credente invece,
l'autoritarismo e l'immobilismo
nella Chiesa non hanno nulla di ineluttabile e sono scioccanti. Poiché le
convinzioni cristiane,
rischiose, senza prova, devono incarnarsi in culture in cambiamento e liberarsi
dal dominio delle
passioni e dei compromessi umani: il che richiede una costante rimessa in
discussione.
Benedetto XVI risponde alla denuncia del monolitismo ecclesiale agitando lo
spettro del
“relativismo”, che assimila all'arbitrario e al caos: ai suoi occhi, tra
l'enunciato dogmatico definitivo
e le opinioni individuali capricciose, non ci sarebbero vie intermedie. Eppure,
l'esperienza delle
società contemporanee non mostra forse, all'opposto, ciò che la deliberazione
pubblica può avere di
fecondità teorica, di potere integratore e di serietà morale?
Sogniamo una Chiesa intellettualmente adulta, cioè capace di mettere in
dibattito i suoi principi e le
sue scelte invece di censurare la dissidenza e di compiacersi nell'autocelebrazione.
Non per definire
le sue convinzioni a partire dalla sola discussione: poiché le convinzioni si
concepiscono come una
risposta ad una parola che viene da più lontano degli uomini.
Ma per purificarle e per investirsi anche lei nella ricerca comune del vero.
Così come ci sono
quattro Vangeli dalle teologie distinte e in ricerca di se stesse, così come gli
Atti degli Apostoli e le
Lettere di San Paolo mettono in scena incessanti controversie interne, la
cultura del dibattito
pubblico e dello spirito critico sarebbe un'opportunità per il mondo cattolico.
di Gilles Marmasse, insegnante ricercatore in filosofia
all'Università Paris-IV-Sorbona
in “Le Monde” del 12 settembre 2008 (quotidiano francese)
Un papa per lo
“scontro di civiltà”
Con la visita di Benedetto XVI viviamo una mescolanza di generi molto
significativa tra religione e
politica. L'eccesso ostentato dei mezzi ufficiali messi a disposizione,
l'occupazione aggressiva dello
spazio pubblico, tutto ha un senso. Qui, il mezzo è lo scopo. Il papa e il
presidente hanno in comune
una strategia di ri-confessionalizzazione istituzionale della società francese.
I due uomini si iscrivono a questo riguardo nella teoria dello scontro di
civiltà di Samuel
Huntington, breviario della diplomazia degli Stati Uniti. Traggono dalla
religione la legittimità ad
agire per il dominio di un preteso “Occidente”. In questa prospettiva, la
Repubblica laica costituisceun ostacolo. È necessario un cambiamento di rotta.
Il discorso al Laterano di Nicolas Sarkozy lo ha
proclamato sotto il nome di una “laicità positiva”.
Questa dovrebbe tradursi in una pseudo “modernizzazione” della legge del 1905.
Quindi, proprio
prima della visita del papa, il suo primo ministro, il cardinal Bertone, si è
rallegrato: “Certi
elementi fanno sperare in una evoluzione di questa laicità rigida che fece della
Francia della IIIa
Repubblica un modello di comportamento antireligioso.” Che cos'è questa “laicità
positiva”?
Una riformulazione da parte di Benedetto XVI della rivendicazione della Chiesa
romana ad essere
riconosciuta come protagonista ufficiale dello spazio pubblico! Ecco il
postulato del cardinal
Ratzinger: “La fede non è una cosa puramente privata e soggettiva. È una grande
forza spirituale
che deve toccare e illuminare la vita pubblica”. Nicolas Sarkozy l'ha
ufficializzata: “Esprimo il
mio desiderio dell'avvento di una laicità positiva, cioè una laicità (...) che
non consideri che le
religioni sono un pericolo, ma piuttosto un elemento positivo.” È ciò che
chiedeva il papa: “Uno
stato sanamente laico dovrà logicamente riconoscere uno spazio nella sua
legislazione a questa
dimensione fondamentale dello spirito umano. Si tratta in realtà di una “laicità
positiva” che
garantisce ad ogni cittadino il diritto di vivere la sua fede religiosa con una
libertà autentica,
anche nell'ambito pubblico.”
L'ambito pubblico, ecco il punto base del papa: “L'ostilità ad ogni forma di
importanza politica e
culturale concessa alla religione, e alla presenza, in particolare, di ogni
simbolo religioso nelle
istituzioni pubbliche, non è certo una espressione della laicità, ma della sua
degenerazione in
laicismo.” Joseph Ratzinger aveva avvertito: “Una tale separazione, che
definirei di 'profanità'
assoluta, sarebbe certamente un pericolo per la fisionomia spirituale, morale ed
umana
dell'Europa.” Infatti, per il papa, “l'Europa è un continente culturale e non
geografico. È la sua
cultura che le dà una identità comune. Le radici che hanno formato e permesso la
formazione di
questo continente sono quelle del cristianesimo.”
La visione è ancora più ampia. È l'Occidente che è in questione. “L'Occidente è
minacciato da
molto tempo dal rifiuto delle questioni fondamentali della ragione e non può in
questo che correre
un grave pericolo”, dichiara il papa. Nicolas Sarkozy condivide questo credo. Il
“primo rischio”
nel mondo, ha dichiarato tre mesi dopo la sua elezione è quello di uno “scontro
tra islam e
Occidente”. Al diavolo la realtà statale dell'ordine internazionale e pazienza
per i cinque milioni di
musulmani francesi. Certo, questa tesi proclama un'identità solo per meglio
designare degli
avversari.
L'islam prima di tutto. Questa lettura di un occidente minacciato dall'islam,
Benedetto XVI l'ha
espressa in maniera particolarmente provocante nel suo discorso di Ratisbona nel
2006. Col pretesto
di una riflessione sulla fede e sulla ragione, il papa utilizza un dialogo tra
l'imperatore bizantino
Manuel II Paleologo ed un sapiente persiano su “il cristianesimo e l'islam, e la
loro verità
rispettiva”. Citava così l'imperatore cristiano: “Mostrami dunque ciò che
Maometto – il Profeta –
ha portato di nuovo, e allora troverai certo solo cose cattive ed inumane, per
esempio il fatto che
ha prescritto che la fede che egli predicava, bisognava diffonderla con la
spada.”
Questo riferimento molto dubbio pronunciato l'indomani
dell'anniversario degli attentati dell'11
settembre è un programma politico. Ed una mistificazione. Poiché ha trascurato i
secoli di violenza
sotto l'impulso della Chiesa, dalle crociate all'Inquisizione, passando per le
persecuzioni dei
calvinisti, l'insurrezione degli chouans e la resistenza alla legge del 1905.
Di fronte alle proteste sollevate da questo discorso, Benedetto XVI ne aveva
minimizzato
l'importanza, con il pretesto di una riflessione anodina. Ma il suo segretario
particolare, don
Gaenswein, ne confermava un anno dopo la portata decisamente politica: “Ritengo
il discorso di
Ratisbona, così come è stato pronunciato, un discorso profetico. Non si possono
eludere i tentativi
di islamizzazione dell'occidente. E il pericolo per l'identità dell'Europa che
vi è legato non deve
essere ignorato.” Questo è lo sfondo della crociata del papa nella Francia di
Nicolas Sarkozy.
Il papa è un capo politico oltre che un capo religioso. Tutta l'America
Latina progressista ne fa
l'amara esperienza nella sua lotta per il diritto al divorzio e all'aborto e per
la messa al bando della
teologia della liberazione. L'Italia, la Spagna e la Polonia pagano lo scotto di
intrusioni permanenti
nelle loro elezioni.
La Francia non sarà risparmiata se l'ebetismo dello
spettacolo clericale spegne la vigilanza laica. La
laicità chiamata positiva è un imbroglio. Ristabilirebbe i privilegi di
preconizzazione pubblica e di
pressioni private della Chiesa. La Francia ha bisogno di una laicità estesa a
nuovi ambiti dello
spazio pubblico (ospedali, servizi pubblici, ecc.). Più che mai: lo Stato e la
Chiesa, stiano ognuno a
casa propria!
di Jean-Luc Mélenchon, senatore (PS) dell'Essonne
in “Le Monde” del 12 settembre 2008