L'ingorgo
all'italiana
L'ingorgo, nel senso generalizzato di addensamento inestricabile di problemi
irrisolvibili per un
progresso e una crescita che si pensavano e si volevano senza limiti, è il
cancro che divora
nell'intimo la società di massa. L'aggredisce sia nella quotidianità che nel
tempo dell'evasione.
Sogniamo tutto l'anno di evadere dalla pressione fisica e psicologica
dell'ingorgo quotidiano e
quando suona la campanella ci offriamo corpo e anima all'aggressione
dell'ingorgo festivo che si
accanisce su di noi ovunque andiamo.
Gli ingorghi della mobilità, che sono incubi quotidiani, costituiscono però
anche la metafora
perfetta di una condizione generalizzata. Già trent'anni fa Comencini, nel suo
film L'ingorgo, aveva
descritto superbamente la nostra condizione pubblica e privata di
«imbottigliati», elevando a
metafora un comune fatto di cronaca, un ingorgo stradale alle porte di Roma.
Tutti fermi, chiusi nelle proprie auto e soprattutto in se stessi, senza sapere
perché è successo né
quando finirà, aggrediti dall'angoscia e piano piano anche da sentimenti di
collera che vengono
scaricati sui compagni di sventura scatenando i peggiori istinti di
aggressività. Luigi Comencini ha
ripreso e rielaborato la rappresentazione del collasso della società borghese
offerta da Godard in
Week-end e da Julio Cortàzar nel racconto L'autostrada del Sud.
L'ingorgo tragico e beffardo della società del progresso infinito e della
libertà illimitata può avere
però un risvolto costruttivo. Bisognava forse battere il capo e arrivare a
questo esito drammatico
perché il «dissenso», l'andare in senso diverso, incominciasse a diffondersi
come cultura di massa e
si rivelasse l'unica vera speranza. Lo stesso Comencini adombra un tale
esito nella capacità
d'indignarsi che qualche personaggio del film rivela e che può rivelarsi una
risorsa per tutti.
Uno studio pubblicato qualche anno fa da Nature spiega che la sopravvivenza del
formicaio è
dovuta a un delicato equilibrio fra conformismo e creatività, fra obbedienza e
disobbedienza, fra
sequela e ribellione. Ricercatori di Francia, Belgio e Germania hanno studiato
il comportamento
delle formiche sul percorso che collega il formicaio al cibo. Le formiche
tendono inizialmente a
seguire in fila indiana il percorso scelto dalla formica che per prima ha
scoperto il cibo. I feromoni
rilasciati dalla esploratrice sul percorso impediscono di deviare. Ma a un certo
punto si crea un
ingorgo che impedisce di giungere al cibo. Il principio istintivo della sequela
acritica mette a rischio
la sopravvivenza del formicaio. Scatta un altro principio anch'esso iscritto
nell'istinto: la creatività,
la disobbedienza, la ribellione. Una o più formiche si ribellano alla legge dei
feromoni. E prendono
un'altra strada. Il cibo è di nuovo assicurato, il formicaio è salvo.
La formica ribelle sa che la standardizzazione dei comportamenti è un
rischio per qualsiasi essere
vivente. Il conformismo frena la capacità di adattamento. Blocca l'evoluzione. È
stato la premessa
per l'estinzione di molte forme di vita. Chi glielo ha detto alla
formica non-conformista? È iscritto
nel suo codice genetico. E è iscritto allo stesso modo anche nel nostro Dna di
umani. Perché
l'anticonformismo è dentro i geni che assicurano la sopravvivenza della specie
umana.
Se vuoi annullare la ribellione creativa non puoi limitarti a eliminare una
razza, come fece il
nazismo con gli zingari, imitato ora anacronisticamente e stupidamente dalle
politiche xenofobe.
Devi eliminare il senso stesso della sopravvivenza e quindi della vita.
Perfino i sociologi annunciano stupefatti che le imprese illuminate stanno
cercando «manager
ribelli» capaci di un pensiero «divergente».
Una certa Cristina Bombelli, ad esempio, docente di organizzazione aziendale
alla Sda-Bocconi,
sostiene, in accordo con molti altri sociologi e consulenti aziendali, che i
manager yes man portano
le aziende alla rovina perché «il leader che non sopporta di esser contraddetto
non solo si circonda
di conformisti ossequiosi, ma perde il contatto con la realtà e con il mercato.
Ci penseranno i
leccapiedi, infatti, a censurare le informazioni. Non ci vuole molta fantasia
per immaginare che
un'impresa di questo tipo è destinata all'insuccesso. O cambia oppure rischia di
trovarsi per terra».
C'è da sbellicarsi a pensare che il dissenso potrebbe esser destinato a salvare
il capitalismo!
Nell'ingorgo festivo che ci lasciamo alle spalle e in quello feriale che
ritroviamo nei luoghi del
quotidiano, in ogni ambito di vita, si aprono spiragli di consapevolezze nuove.
Che hanno bisogno
di essere coltivate, comunicate e diffuse.
L'augurio è che anche per il manifesto si aprano spazi nuovi in modo che possa
dispiegare ancor
meglio il suo compito storico di servizio verso il dissenso creativo.
Enzo Mazzi il manifesto 31
agosto 2008