L’opinione pubblica è rimasta senza voce


Dal festival cinematografico di Locarno dove si trovava, Nanni Moretti qualche giorno fa ha lanciato una provocazione politica. «In Italia – ha detto – l´opposizione non esiste più ma c´è un altro fenomeno ancora peggiore: non c´è più un´opinione pubblica. Il dominio di Berlusconi sulle reti televisive ha spostato e devastato il modo di pensare degli italiani».
Moretti non è il solo ad essere arrivato a questa conclusione; l´autore del "Caimano" ha però il pregio di non esser mosso da alcun interesse né ideologico né pratico; esprime icasticamente un modo di pensare e di constatare che in parte anch´io condivido ma che merita comunque alcune precisazioni. Soprattutto per quel che riguarda la pubblica opinione. Il tema è di grande importanza, specialmente nei Paesi democratici. In essi infatti l´opinione pubblica costituisce la sostanza vitale sulla quale la democrazia imprime la propria forma.
Anche nei Paesi governati da sistemi autoritari o, peggio, totalitari l´opinione pubblica rappresenta un elemento essenziale cui il potere dedica specialissime cure. Il fine di questi regimi consiste nella sistematica manipolazione delle coscienze affinché siano persuase ad una credenza conforme. Una variante (non necessariamente alternativa) è quella di smantellare ogni tipo di opinione facendo rifluire l´attenzione dei cittadini sui loro interessi privati. Questo processo, se portato alle sue conseguenze ultime, conduce alla desertificazione dell´opinione pubblica. Mi sembra che l´autore del "Caimano" pensi e tema soprattutto questa variante: il dominio delle opinioni private al posto dell´opinione pubblica, alle mire del regime dominante.
Altre volte ho scritto che lo specchio in cui si rifletteva l´immagine che i cittadini avevano del loro Paese si è rotto in tanti frammenti i quali riflettono soltanto la figura e gli interessi frammentati di chi vi si specchia. Tante opinioni private senza più una visione del bene comune: questo è il prodotto del berlusconismo, agevolato e amplificato dal controllo dei "media". Ad esso l´opposizione non ha saputo rispondere: nonostante le intenzioni di seguire una strada opposta ha subito l´egemonia berlusconiana e si è sintonizzata sulla stessa lunghezza d´onda, convinta di poter diffondere messaggi diversi. Allo stato dei fatti l´esito di questo scontro ha dato un solo vincitore e parecchi sconfitti.

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Tuttavia l´esito non è definitivo e non tutte le opinioni sono state ridotte alla sola dimensione privata. Ci sono ancora gruppi consistenti di cittadini che coltivano una visione del bene comune, che sentono il bisogno impellente di pensare in termini di bene comune senza contrabbandare dietro queste due parole i loro privatissimi egoismi e le loro personali egolatrie.
Esiste per esempio un´opinione pubblica "berlusconista". Coltivata, amplificata, puntellata con mezzi imponenti, ma di cui sarebbe un madornale errore negare l´esistenza. Sicurezza, tolleranza zero, intransigenza identitaria, fiducia nel leader anche a costo di veder sacrificati alcuni privati interessi. Un´opinione pubblica così conformata costituisce la base di consenso che accomuna le spinte identitarie berlusconiste e leghiste. Caro Moretti, quest´opinione pubblica c´è; anche se da quello specchio emerge una figura che a te ed a me risulta ripugnante, è tuttavia con essa che si debbono fare i conti.

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C´è un altro specchio e un´altra opinione pubblica di diversa natura; è quella di cui parla Giuseppe De Rita quando delinea una strategia cattolica fondata sulle comunità locali, sul volontariato, sul doppio pedale del "sacro" e del "santo", cioè della fede e delle opere.
Questa visione del bene comune indubbiamente esiste ma non si identifica né con il Vaticano né con la Conferenza episcopale. Sono piuttosto i cattolici degli oratori, delle case religiose, delle comunità di dimensioni nazionali, di alcuni Ordini religiosi.
Il sacro e il santo. Riesce molto difficile dare una figura politica a questo tipo di opinione pubblica, ma senza una figura politica non esiste una visione di bene comune perché non esiste una "polis", una città terrena dove applicarla. Il sacro non è infatti di questo mondo. Quanto al santo, cioè alle opere, esse costituiscono un´importante presenza testimoniale e missionaria, una rete flessibile come tutte le reti e quindi disponibile ad essere utilizzata da forze esterne. Dietro il santo c´è molto spesso un vitello d´oro da adorare invece del poverello di Assisi e ne abbiamo tutti i giorni la prova.

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Esiste anche, da almeno due secoli, ed opera attivamente in tutte le democrazie occidentali un´altra opinione pubblica con caratteristiche sue proprie ed è quella espressa dalla "business community". Possiede potenti strumenti di formazione e di diffusione ed ha una sua precisa visione del bene comune: libertà di mercato, regole blande, considerazione degli interessi costituiti, Stato efficiente e leggero. Insomma il capitalismo, che può assumere di volta in volta forme molto diverse tra loro, dal liberismo al protezionismo, dall´alleanza con la democrazia a quella con la "governance" autoritaria.
Oggi questa opinione pubblica è tendenzialmente orientata verso la versione berlusconista della democrazia, con simpatie leghiste diffuse soprattutto nel Nord-Nordest, ma la "business community" fa comunque parte a sé, ha il suo metro di giudizio, i suoi valori e la sua moralità che si realizza nel profitto d´impresa, "variabile indipendente" alla quale tutte le altre a cominciare dal lavoro debbono conformarsi.

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Infine esiste (stavo per scrivere esiste ancora) un´opinione pubblica di centro e di sinistra riformista, progressista, laica. La sconfitta elettorale di un anno fa sembra averla ridotta ad uno stato larvale; non riesce ad esprimere un pensiero unitario e un´egemonia culturale, percorsa da convinzioni forti ma contrastanti: tolleranza, solidarietà, legalità, federalismo, centralismo, pacifismo, sicurezza, diritti, doveri, gregarismo, moderazione, massimalismo. Spore del possibile avrebbe detto Montale. Belle persone e volti consumati. Lotte per conquistare un potere inesistente e futuribile. Trasformismi sottotraccia e idealismi generosi.
Quest´opinione pubblica avrebbe bisogno d´una voce che la rappresenti e di una forma che la riporti in battaglia. E ancora una volta dico: d´uno specchio in cui possa guardarsi e rassicurarsi del proprio esistere.
Alle primarie dello scorso ottobre questa forma sembrò realizzarsi. Sono passati dieci mesi da allora e sembra un tempo lontanissimo. Può tornare soltanto se ricreato da un atto di volontà collettiva. Le scorciatoie individuali non servono a nulla, nascondono piccole vanità e mediocri trasformismi. Serve una volontà di massa per risollevare un Paese sdrucito e frastornato. Si può fare? Fino a poco tempo fa pensavo di sì, ma i giorni passano in fretta e non inducono a pensare positivo. Le spinte centrifughe aumentano e il «si salvi chi può» rischia di diventare un sentimento diffuso. Se volete dare un segnale di riscossa dovete alzarvi e camminare. Altrimenti attaccate la bicicletta al chiodo e non pensateci più. Toccherà pensarci ai vostri nipoti se ne avrete.

Post scriptum. Tre giorni fa l´ufficio statistico europeo Eurostat ha diffuso le cifre ufficiali concernenti il Pil di Eurolandia. Per la prima volta dalla nascita della moneta unica il Pil del secondo semestre di quest´anno arretra dello 0.2 per cento. Non vuol dire ancora recessione ma poco ci manca.
L´inflazione dal canto suo è ferma al 4 per cento, ma molti segnali registrano un´inversione di tendenza: petrolio, materie prime, prodotti ferrosi, derrate alimentari denunciano consistenti ribassi sui mercati internazionali anche se su molti mercati locali questi ribassi ancora non arrivano, ostacolati dalla lentezza dei circuiti distributivi e dalla presenza di monopoli e cartelli.
Fermo restando che l´andamento dell´inflazione dev´essere continuamente controllato, il pericolo incombente riguarda - ormai risulta in modo evidente - una drastica caduta della domanda di consumi e di investimenti con il cupo corteggio di disoccupazione e di ulteriore arretramento del reddito nazionale e individuale.
Da questo punto di vista l´intera impostazione della manovra finanziaria risulta a dir poco fuori tempo. La compressione triennale della spesa per un totale di 36 miliardi dei quali 16 già nel primo esercizio, a parità di pressione fiscale, configura una strategia insensata. Se è vero che la crisi attuale ricorda per gravità e dimensioni gli eventi del triennio 1929-1932, è altrettanto vero che le misure finanziarie fin qui attuate ricordano quelle che in Usa furono prese dalla presidenza repubblicana precedente all´avvento di Franklin D. Roosevelt. Misure sciagurate, che aggravarono ulteriormente la crisi e rallentarono gli effetti del rilancio rooseveltiano sulla domanda di consumi e di investimenti.
In queste condizioni, quali che siano le opinioni di Tremonti e di Calderoli, parlare di federalismo fiscale è pura accademia e fumo negli occhi per distogliere l´attenzione da questioni assai più cogenti. Una trasformazione radicale del sistema tributario e dei poteri amministrativi effettuati in tempi di recessione e di deflazione è inattuabile poiché comporta gravissimi rischi. Come se, in tempi di tempesta, il timone della nave fosse affidato a venti timonieri anziché ad uno. Basta enunciare un´ipotesi del genere per esserne terrorizzati.

 Eugenio Scalfari      Repubblica 17.8.08