La dignità
Nel caso di Eluana non si sta sopprimendo una vita umana, ma al contrario si sta
riconoscendo la
sua dignità. Il suo diritto a morire dignitosamente. Naturalmente secondo un
criterio che non è
quello bioteologico, cioè di chi considera il bios vegetativo come tale segno
dell’impronta divina
nell’uomo.
La questione tuttavia è molto seria e va affrontata con ragionevolezza e
rispetto reciproco delle
differenti posizioni. Le convinzioni sulla vita e sulla morte, come quelle sulla
famiglia e sul sesso,
ci dividono profondamente. Ma se vogliamo vivere insieme in una comunità civile
di cittadini,
credenti e non credenti, dobbiamo coltivare attenzione reale per le ragioni di
tutti. Questo non è
«relativismo», ma segno della maturità di una società civile.
Nessuno quindi - a cominciare dai rappresentanti della Chiesa - ha il diritto di
usare argomenti
infamanti o criminalizzanti contro chi ha preso la decisione di lasciar morire
in pace Eluana. Oggi è
rimesso in discussione che cosa sia la «vita», anzi la vita umana. La medicina
ha alterato
profondamente il rapporto tra biologico e meta-biologico. Il confine è diventato
labile e
incontrollabile. Noi vogliamo riappropriarci di questo territorio tenendo fermi
alcuni criteri.
Cominciando con l’affermare che è legittimo chiederci se una vita veramente
vegetativa, senza
alcuna possibilità di recupero, sia degna di essere vissuta.
Porsi questo interrogativo non equivale a sostenere una selvaggia eutanasia, ma
a ribadire la
pienezza della dignità umana e quindi porre le premesse da cui discendono
quesiti essenziali cui
rispondere. Primo: chi ha la competenza di stabilire l’irreversibilità della
condizione di una vita
vegetativa? Secondo: chi ha il diritto di decidere sul destino di chi si trova
in questa condizione? Mi
pare che nel caso di Eluana entrambi i quesiti abbiano trovato una risposta
ragionevole e accettabile.
I medici hanno stabilito l’irrecuperabilità della ragazza a una vita degna di
essere vissuta. Il padre
come persona biologicamente, emotivamente, giuridicamente più vicina ha preso in
piena
consapevolezza la decisione di sospendere l’alimentazione. Responsabilmente e
pubblicamente.
Diciamolo pure brutalmente. Quanti casi analoghi sono decisi quotidianamente in
modo cinico,
ipocrita, sottobanco - magari (Dio non voglia!) con l’assenso tacito dei
clericali «purché non si
faccia scandalo»? Ben venga quindi un dibattito pubblico, forte ma leale. Con
una premessa
essenziale però: nel nostro Paese esiste una magistratura che su questa
difficilissima materia sta
muovendosi con scrupolo, ponderando tutte le ragioni in campo, tutti i diritti
in gioco. Può
sbagliare, naturalmente; le sue sentenze possono essere corrette o rettificate.
Ma nessuno - con la
presunzione di appartenere ad un ordine morale superiore - si azzardi a
diffamarla. Magari in nome
di una «sana laicità».
Gian Enrico Rusconi La Stampa
10 luglio 2008