Legittimità e legalità


Se, come ha scritto Carlo Federico Grosso su questo giornale, «il barometro della legalità in Italia
segna tempesta», vuol dire che qualcosa di grave sta succedendo, nel governo e nella coscienza dei
cittadini: qualcosa che guasta il rapporto che ambedue hanno con il diritto e la giustizia, che li rende
indifferenti alle continue capricciose riscritture di leggi e competenze. Qualcosa che inquina non
solo il nostro rapporto con la democrazia ma anche la domanda, diffusa, di stabilità e sicurezza delle
istituzioni. Piano piano ci stiamo abituando all'idea, ingannevole, che un governo durevole con
vasta maggioranza sia sinonimo di stabilità. Che un esecutivo capace di decidere (o decisionista) sia
possibile solo indebolendo istituzioni e fonti di diritto altrettanto centrali per lo Stato (Csm,
magistratura).
Ma soprattutto, ci stiamo abituando a un'idea scivolosa: che sopra la legalità e separata da essa
possa sussistere una categoria superiore: la legittimità. La legittimità non trarrebbe la sua forza da
leggi preesistenti, che prescindono da sconquassi contingenti. Essa poggerebbe su una sorta di
consacrazione extralegale, che consente di accentrare in una persona o in un unico corpo i poteri di
far legge. Grosso evoca le tappe di Berlusconi su questa strada.
La prima consiste nel dire che «quando incombono grandi emergenze, rispettare la legge diventa
opinabile» (discorso sui rifiuti a Napoli). La seconda, più grave, consiste nel dire che «quando un
Governo ha ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa direttamente in nome del popolo, ha
diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti», lasciando «poco spazio ai controlli in corso
d'opera».
L'idea che sussista una legittimità preminente sulla legalità non è tuttavia una novità e neppure è tirannide classica.

È una malattia della democrazia, una sua estremizzazione: è quel che le accade
quando il peso del potere (esecutivo o legislativo) non è corretto da contrappesi egualmente
autonomi, forti (da un sistema di check and balance). È un'escrescenza democratica basata su
convinzioni sbadate: che il liberalismo sia un prodotto della democrazia e non una sua premessa (un
prius, dice Sartori). Che la rule of law nasca con la democrazia anziché precederla. L'unzione del
capo può discendere da Dio, da antiche dinastie. Può anche esser democratica e in tal caso chi unge
è il popolo liberato dal tiranno, è la «volontà generale» teorizzata nella Rivoluzione francese (non è
molto diverso nell'Antico Testamento: la legittimità d'Israele unge tutto un popolo nell'esodoliberazione).
Lo Stato democratico unto dalla volontà popolare rischia l'assolutismo non meno dei re antichi: Carl
Schmitt descrivendo Weimar lo chiamava Stato legislativo parlamentare e lo riteneva rovinoso
perché contrapposto allo Stato giurisdizionale e al suo «durevole, generale» imperio della legge. In
una democrazia siffatta il popolo è un'entità non eterogenea ma omogenea, monolitica, e in quanto
tale conferisce al principe il diritto esclusivo di legiferare. La maggioranza parlamentare pretende di
coincidere con tale popolo indifferenziato ed è in suo nome che il legislatore reclama il monopolio
sulla legalità. Minoranze, opposizioni, autorità di garanzia e regolamentazione sono d'intralcio coi
loro «controlli in corso d'opera», e la democrazia sfocia nell'autoritarismo. Quel che per strada si
perde è la liberale separazione dei poteri: la persuasione di Montesquieu secondo cui «perché non si
possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere». Se Luigi XIV diceva «lo Stato sono
io», Berlusconi democraticamente dice: io, unto dal démos, sono la Legge. Berlusconi è figlio della
Rivoluzione francese, non del liberalismo e di Montesquieu.
I motivi che spingono a estremizzare la democrazia possono essere molti. Schmitt ricorda che chi
monopolizza la legalità e mette in concorrenza il legittimo col legale invoca generalmente «concetti
indeterminati» come sicurezza e ordine pubblico, pericoli nazionali e stati di necessità, emergenze,
interessi vitali e infine guerre. Anche lo «spirito di conciliazione» tra governo e opposizione viene
invocato in tempi di torbidi, usando la chimera del popolo uniforme e buono per corrompere la
democrazia esasperandola. La corrompe a tal punto che lo scopo spesso viene mancato. Infrangere
rule of law e separazione dei poteri non dà più sicurezza, ma riduce il senso del dovere degli
italiani. Non dà più pace civile, perché acuisce le tensioni e perché l'immunità per le alte cariche
non rende queste ultime più autorevoli.
All'origine di simili distorsioni c'è il convincimento che il mandato popolare sia tutto, e chi l'incarna
sia legibus solutus: sciolto da leggi, immune da sanzioni. Che sia esso stesso la legge, la legge del
più forte. Che il mandato conferisca non solo speciali diritti ma un premio supplementare di
legittimità al legislatore e all'esecutivo. «In una democrazia legge è la volontà del popolo così come
questo si presenta, cioè praticamente la volontà della momentanea maggioranza dei cittadini che
hanno diritto di voto: lex est, quod populus iubet» (è legge quel che ordina il popolo - Schmitt,
Legalità e legittimità, 1932): «Il 51 per cento dei voti popolari dà la maggioranza in Parlamento; il
51 per cento dei voti parlamentari dà il diritto e la legalità; il 51 per cento di fiducia del parlamento
al governo dà il governo parlamentare legale».
Tale è la democrazia senza imperio della legge: un male ricorrente da secoli, cui le sinistre non sono
affatto estranee. La linea di separazione non è infatti fra destra e sinistra, né fra democratici e
antidemocratici, ma fra democrazia liberale e estremismo democratico: per la prima la questione
centrale è come si esercitano i poteri per evitarne gli abusi, mentre per l'estremismo democratico la
cosa cruciale è chi li esercita. Quando non è contaminata dallo Stato giurisdizionale, la democrazia
scivola nella tirannide e riconoscerlo è difficile non solo a destra. Figlia del democraticismo
giacobino, la sinistra non sempre è attrezzata per il dilemma legalità-legittimità, e per far proprio
quel che scrisse Bobbio nell'84: «Lo Stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico
dello Stato democratico».
La preminenza data alla legittimità delle maggioranze è una tentazione costante, così come costante
è l'appello alle emergenze nazionali. L'ininterrotta guerra al terrorismo ha spinto Bush a sprezzare le
convenzioni di Ginevra su tortura e prigionieri di guerra. Ma lo stesso avvenne per motivi nobili
con De Gaulle, che due volte mise in primo piano la legittimità. Prima nel 1940, quando da Londra
denunciò - in nome della Resistenza - la legalità di Pétain. Poi nel 1958, quando impose una nuova
Costituzione per sormontare l'immobilizzante partitocrazia della Quarta Repubblica. Il passato
antifascista lo aiutò a tacitare chi lo accusò, nel '58, di golpismo. L'esempio di De Gaulle è
importante perché dimostra la natura anfibia (nobile o pericolosa) del concetto di legittimità. Ci si
riferisce a essa anche per il diritto alla resistenza. Anche Antigone contrappone la propria legittimità
al legalismo del re Creonte.
Non è per pignoleria che occorre approfondire il dilemma legalità-legittimità. Proprio perché l'Italia
ha bisogno di una discontinuità che finalmente dia allo Stato l'autorevolezza che non ha, urgono
concetti non manomessi, chiari. Proprio perché i torbidi esistono, urge al tempo stesso aver
memoria e accortezza nell'azione. La memoria conferma che le più grandi catastrofi storiche son
spesso costruite su cose mal pensate. L'accortezza insegna che le rotture possono esser benefiche (fu
il caso di De Gaulle) ma a una condizione: che rompendo non si curi il male con dosi ancor più
massicce del male di ieri.

Barbara Spinelli            La Stampa  29 giugno 2008