MA LA POVERTÀ NON È ILLEGALE?
 

Caro Sergio Cofferati,

personalizzare la riflessione su alcune tue scelte repressive nei confronti di emarginati è l'unico modo che ritengo di avere per sfuggire alla gabbia del politichese. E però è anche un modo di entrare subito in argomento. Ritengo infatti che impostare la vita e la politica ponendo prima di tutto e alla radice di tutto la relazione fra persone sia un imperativo primario. Lo è da sempre. Ma oggi il primato delle relazioni è diventato una necessità direi assoluta e urgente nella società dominata dal danaro e giocata sulla competizione globale. Gli accampati sul greto del Reno, i lavavetri ai semafori, i giovani dei centri sociali, i senza casa, i senza dimora, gl'immigrati irregolari sono innanzitutto persone con cui "le cittadine e i cittadini di Bologna" devono stabilire una relazione positiva. Questa è la prima regola e la legge fondamentale. La violenza più grave che subiscono gli emarginati è proprio quella di essere annullati come esseri umani con una loro dignità, di venire considerati problemi da risolvere.
L'assenza degli emarginati come persone è la sensazione più immediata e più forte che si recepisce nel leggere il tuo documento sulla legalità. Lì ci sono tanti concetti ma queste persone non ci sono. C'è il "degrado in alcune zone della città e la diffusione di pratiche e comportamenti illegali che aumentano la percezione di insicurezza". Eccoli i disperati, definiti come "pratiche e comportamenti illegali". E c'è quella condanna generalizzata e indistinta: "L'illegalità, qualunque sia la ragione che la determini, non può trovare giustificazione". L'ille-galità mafiosa, l'illegalità della guerra, l'illegalità dei trafficanti di armi e anche l'illegalità delle bande del racket che sfruttano, è posta sullo stesso piano dell'illegalità degli emarginati di ogni tipo e dei disperati. Nel tuo documento ci sono anche buoni propositi per "tutelare i più deboli garantendo loro piena cittadinanza".

Ma i buoni propositi annegano subito nella discriminante che poni: "ma nel contempo deve essere chiara la discriminante verso chi si pone fuori dalla legge o si sottrae ai percorsi di legalità". È ovvio che il reato va punito. Ma è fuorviante e irrispettoso definire il baraccato o il lavavetri o l'immigra-to senza permesso come "chi si pone fuori dalla legge" allo stesso modo del rapinatore. Mancano loro nel tuo documento, mancano le persone.
È soprattutto però nelle pratiche repressive, nei blitz della polizia che essi come persone con dignità non ci sono, sono annullate. Negli episodi bolognesi i poveri sono colpiti in quanto illegali. La loro illegalità è palese e talvolta provocante. Ne conosciamo bene i risvolti anche inquietanti. Ma c'è qualcosa che viene prima della loro illegalità: è la povertà. Dobbiamo porcela la domanda che va alla radice: è legale la loro povertà? Qui a Firenze abbiamo fatto di recente un Convegno internazionale organizzato dalla Presidenza del Consiglio comunale che aveva per titolo: "Dai poveri illegali alla illegalità della povertà". È stato un incontro non tanto di parole quanto di socializzazione di analisi e percorsi concreti. La Conferenza fiorentina si è conclusa con una "Dichiarazione di Firenze sulla illegalità della povertà" assunta dal Consiglio comunale. Se la società è insicura e sull'orlo di un collasso, è lì che si deve porre l'attenzione, sulla illegalità della povertà. E non è da escludere che sia necessario passare talvolta anche attraverso scelte che assumano l'illegalità come metodo per raddrizzare il cammino di una legalità distorta e pericolosa, strutturalmente generatrice di povertà. Sempre comunque nel contesto di azioni assolutamente nonviolente.
Le grandi conquiste dell'umanità e in particolare la società dei diritti sono il frutto di percorsi attraverso il deserto rischioso della illegalità. "L'obiezione di coscienza" non è buona solo per santificare un Gandhi o una Rosa Parks, morta in questi giorni. Nel 1955 trasgredì provocatoriamente la legge dell'A-labama sulla segregazione. "Perché mi spintoni?", disse all'agente che l'aveva sollevata di peso dal posto riservato ai bianchi sull'auto-bus. "Non lo so – rispose l'agente – so che è la legge e io devo farla rispettare". Colpisce questa risposta perché sono le stesse parole del tuo documento. Forse nel suo intimo egli pensò, come pensi tu, che il rispetto della legalità era l'unico sistema per difendere i diritti dei deboli. I quali, in un sistema di illegalità, sono proprio quelli che ci rimettono di più. Era per difendersi dalle orrende aggressioni razziste che perfino gli stessi neri puntavano alla rigorosa applicazione della legge. Non la pensava così Rosa. La pagò cara ma alla fine la sua ribellione fu la scintilla che salvò la società americana dal baratro del razzismo su cui stava pericolosamente scivolando. La sua testimonianza è quanto mai attuale e costituisce un modello non solo per la solidarietà militante ma, con tutte le cautele del caso, anche per tanti amministratori lungimiranti e coraggiosi. Perché insieme possiamo salvarci dal baratro di un nuovo razzismo tanto più pericoloso perché mascherato da progressismo.


 

 di Enzo Mazzi   * Comunità di base dell'Isolotto - Firenze            da  ADISTA n.77  novembre 2005