E' giusto
abbandonare gli stereotipi (di destra e di sinistra) su don Milani
Caro direttore, condivido pienamente l'auspicio da te espresso nell'editoriale
del 25 maggio ("Bondi,
stavolta hai ragione tu: riprendetevi don Milani") perché «il mondo cattolico,
anche quello
moderato e centrista del quale il ministro fa parte, riscopra Don Milani, lo
studi, lo sperimenti, è una
cosa che trovo meravigliosa».
Don Milani sdoganato anche dal centrodestra: era l'ora. Finalmente verranno
meno, lo spero, le
strumentalizzazioni di parte, le facili etichette e le indebite annessioni, che
ne hanno limitato una
comprensione più profonda.
La Chiesa ha esaltato l'ortodossia di don Milani in contrapposizione a qualsiasi
tentativo di
approfondire la carica eversiva della sua opera e del suo pensiero rispetto al
potere religioso e
politico. Un prete obbediente, non un agitatore sociale. La sinistra lo ha usato
spesso come clava
polemica contro il tradizionalismo cattolico e il conservatorismo democristiano,
ma ha evitato,
soprattutto sui temi della scuola e della guerra, di farci seriamente i conti.
Infine la destra è passata
dalla criminalizzazione del prete rosso e del precursore dell'odiato '68 ad una
lettura strumentale di
spezzoni di frasi (ad esempio sulla scuola privata).
E' l'ora di finirla con questi stereotipi sul priore di Barbiana. Non solo per
amore della verità storica,
ma soprattutto perché una lettura superficiale, strumentale e da marketing
politico del pensiero di
don Milani ci preclude la possibilità di cogliere appieno la grandezza e la
straordinaria attualità di
«uno dei due più grandi intellettuali del secondo novecento», come scrivi tu.
L'altro, e concordo, è
stato Pasolini, e tra i due ci sono stati felici annusamenti.
In realtà don Milani è stato sottovalutato come grande intellettuale, come
straordinaria coscienza
critica della società italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, perché si è
trovato ad operare
nell'Italia della guerra fredda, stretto tra troppe chiese, lui che era, come
sottolinei, un idolatra della
verità senza "se" e senza "ma".
La fretta dell'imbalsamazione, del santino religioso e politico è prevalsa sulla
capacità di farsi
interpellare, mettere in discussione, come invece fece ad esempio Pietro Ingrao
che, nel 1965, salì a
Barbiana e si sottopose al processo senza riguardi cui il priore e i suoi
ragazzi era solito sottoporre
gli ospiti, specie se famosi.
Don Milani fu un prete, un uomo di Dio e del Vangelo: su questo non ci sono
dubbi. Però dalla
radice di una forte esperienza di fede e di ortodossia ecclesiale, è cresciuto
un tronco d'albero, un
pensiero civile, culturale e sociale che può essere usufruibile da quanti
lottano per una società più
democratica, socialmente giusta, pacifica e non violenta.
Don Milani fu ordinato sacerdote nel 1947, a 24 anni, e morì il 26 giugno del
1967. In vent'anni ha
prodotto tre opere che hanno affrontato temi cruciali del secondo Novecento. Nel
1958 uscì
"Esperienze pastorali", libro vietato dal Sant'Uffizio, che anticipò il concilio
Vaticano II: l'uomo al
centro dell'universo e la Chiesa al suo servizio in spirito missionario, e non
viceversa come era stato
fino ad allora. Una rivoluzione copernicana.
Nel 1965 è stata la volta di "L'obbedienza non è più una virtù", libro che
conteneva due lettere, ai
cappellani militari e ai giudici (per la prima don Milani fu processato e
condannato in appello): in
esso il priore di Barbiana demolì il concetto di guerra giusta, argomentò che
nelle guerre
contemporanee le vittime sono soprattutto i civili ed esaltò il primato della
coscienza. L'odierno
movimento pacifista, da Gino Strada ad Alex Zanotelli, sbandiera i concetti che
don Milani anticipò
nel 1965.
Infine nel 1967 "Lettera ad una professoressa", venduta in milioni di copie e
tradotta anche in
cinese, dove si affronta il problema della scuola, della selezione scolastica e
si propone la pedagogia
dell'aderenza (al proprio territorio, alla classe sociale dei poveri e degli
oppressi) e si avanza l'idea
di una cultura «vera, viva e laica».
Vent'anni, tre opere fondamentali. Un pensiero e una vita esemplari, di grande
attualità. Da studiare
con rigore scientifico. Da farci i conti senza sconti. Senza pregiudizi,
etichette e gelosie da vestali
un po' inacidite. Don Milani appartiene alla sua Chiesa, ma anche alla società
italiana. Se l'apertura
di Bondi può aiutare in questo, ben venga.
Caro direttore, concludo con un passo del mio ultimo libro (scusami l'autocitazione),
"Don Milani,
la vita", edito da Piemme, in cui riporto un carteggio poco conosciuto, ma
stupendo tra il giovane
don Milani e un suo cugino molto colto e ricco che si trovava in America. Era il
1947,
nell'Occidente incombeva la paura del comunismo. Don Lorenzo (aveva solo 24
anni) rassicura il
cugino che non è il comunismo la causa del venir meno dei valori spirituali e
aggiunge: «Ma non è
meglio morir di fame in un mondo nuovo e anelante a una nuova giustizia, più
larga, più universale,
senza barriere di classe, di nazione ecc, piuttosto che ingrassare in un mondo
che sta per morire?».
Poi don Milani aggiunge: «L'America non è più il Nuovo Mondo, il Vecchio, quello
che sta
morendo, mentre da quest'altra parte non ci sarà ancora il mondo nuovo che
nasce, ma certo siamo
in quella direzione».
Difronte all'Occidente che brandisce l'identità cristiana contro l'Islam e ai
teocon che benedicono la
guerra di Bush contro l'Iraq e il mondo altro dal nostro, queste parole di don
Milani sono di
straordinaria attualità. Un esempio di come possa essere utile, e sorprendente,
riscoprire il priore di
Barbiana «sine glossa». Come alla lettera egli cercò di vivere il Vangelo di
Gesù di Nazareth.
Mario Lancisi
Liberazione 5 giugno 2008