L'agenda vaticana


C´era una volta una istituzione del giornalismo italiano che si chiamava "nota politica". Consisteva
in una analisi meticolosa, ricca di aggettivi e di formule rituali, delle dichiarazioni dei leader e si
apriva di solito con qualche parola sulla "temperatura politica" che dava il tono della giornata, del
tipo: «Più distese le relazioni nella maggioranza» oppure: «Si arroventa il confronto tra le correnti
dc». Il discorso del Papa di ieri fa venire in mente la prosa del notista politico che nei giornali non c
´è più: «Segnali di un clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo», «rapporti più sereni tra le forze
politiche e le istituzioni». Il testo che fa da sintesi e termometro delle relazioni politiche è
scomparso dai quotidiani, ma si riaffaccia al termine dei lavori della Conferenza episcopale italiana
nelle parole del Pontefice.
In verità è l´insieme dei lavori della Conferenza episcopale che ci ricorda la cura nell´analisi della
situazione "sociale e politica" che in altri tempi si trovava nella vita dei partiti e dei loro organismi.
Le immagini televisive della assemblea dei vescovi, tutti ordinatamente sui loro scranni, chini sui
fogli a prendere appunti mentre parla il cardinale Bagnasco, sono un unicum nella nostra vita
pubblica. Le riunioni dei partiti sono dei festival con grandi cieli azzurri di cartone e folle vocianti
come allo stadio. Oppure non si fanno per niente. Nessuno comunque prende mai appunti. I vescovi
invece chiosano e dosano aggettivi (e forse anche "emendano" nel dibattito che non vediamo?)
come accadeva nei comitati centrali del Pci o nei consigli nazionali della Dc. A pensarci bene, sono
l´unico comitato centrale, l´unica Direzione sopravvissuta. Constatazione che merita riflessione
nostalgica o ansioso disappunto, secondo si tema di più il declino della vita politica o il crescere di
una aggressiva ingerenza ecclesiastica. E soprattutto: ultimo residuo dei vecchi tempi o preannuncio
dei nuovi?
L´auspicio di «una nuova stagione di crescita» è abbastanza ecumenica da non sollevare riserve, ma
le sollecitazioni sulla famiglia, la vita, il sostegno alle scuole cattoliche, l´immigrazione suonano
come una lista di obiettivi politici pressoché completa preannunciata al governo alla vigilia di un
incontro con il primo ministro, come si addice non più a un "notista", a un osservatore, e neppure a
un think-tank, o a un gruppo di pressione che sieda al tavolo della concertazione, ma a una autorità
investita (dall´Alto) della facoltà di dettare l´agenda. Le parole di ieri sono formulate come
"auspici", ma seguono di pochi giorni un violento attacco alla legge sull´aborto, la 194, come una
«ferita nelle nostre società», ferita aperta, dunque da rimarginare, da cancellare.
Non sorprende un richiamo ai valori cari alla Chiesa cattolica, scandalizza e viola le regole della
laicità liberale che esso prenda la forma di un imperativo rivolto al potere politico, quasi si trattasse
di un partito che abbia conquistato la maggioranza alle elezioni e si accinga a mettere in pratica il
programma presentato in campagna elettorale. Con un implicito giudizio positivo sul risultato
elettorale, Benedetto XVI sembra volerlo fare suo. Ma le due cose – giudizio e risultato –
rimangono distinte. Le elezioni – piaccia o non piaccia come sono andate – non sono state affatto un
plebiscito sui valori proposti dai vescovi italiani. L´esito si è se mai distinto proprio perché i temi
che hanno scatenato forti divisioni tra cattolici e non (aborto, eutanasia, ricerca sugli embrioni) sono
finiti ai margini, insieme alle liste che più ci avevano fatto conto, da una parte e dall´altra. Il segnale
inviato dagli elettori è esattamente che chi ha vinto ha vinto e chi ha perso ha perso per ragioni
diverse da quelle care alla Cei. Se poi si volesse sottilizzare, il successo leghista non depone a
favore dell´etica caritatevole dell´accoglienza e dei ricongiungimenti famigliari degli immigrati. Al
contrario.
Dunque non si vede su quale base riposi una presunta facoltà della Chiesa romana di dettare l
´agenda. Il dialogo tra la fede e la ragione, tra credenti e non credenti in una democrazia liberale,
come quello che Ratzinger ha proposto già dall´epoca del suo confronto con il filosofo Jürgen
Habermas, nel 2004, si nutre di un reciproco rispetto tra laici e religiosi che richiede un intenso
lavoro di "traduzione" del linguaggio religioso in linguaggio della "ragione pubblica". È una buona
cosa che si possa ascoltare nella vita pubblica la voce di chi ha fede, buona anche per chi non crede.
E può essere anche utile in una fase di mutismo dei partiti. Ma si tratta di un bene da gestire con
prudenza, moderazione e con una attenta opera di "traduzione", tra sfera dei valori di fede e sfera
dei valori democratici, che la Cei così irresistibilmente attratta dalle funzioni politiche, tende a
dimenticare.
Tanta vicinanza della Chiesa all´agenda politica italiana (e solo questa?) è sospetta, specie nelle
parole della sua guida più alta. Si tratta di una autorità spirituale planetaria e in questo modo, così
legato a una singola locale bottega, non rischia di incoraggiare dei dubbi sulle dimensioni salvifiche
e universali del suo messaggio? Il linguaggio delle note politiche di giornata e le analisi tendenziose
del voto non si addicono a titolari di progetti bimillenari.

Giancarlo Bosetti      la Repubblica   30 maggio 2008