A Medellín la Chiesa scoprì i poveri


Sono assai più numerosi di quanto si pensi coloro che pensano la Chiesa cattolica come una sorta di
multinazionale: una grande impresa, con un amministratore delegato molto potente, e tante filiali
che trasmettono prodotti e ordini ad un pubblico nel quale, dopo le sbornie della modernità, il
religioso in tutte le sue varianti ha un grande appeal e nel quale il cattolicesimo è destinato ad
occupare fette sempre più grandi del mercato. Frutto di involuzione o di malizia, questa visione non
suscita la riprovazione che meriterebbe. Viene insufflata più subdolamente di quanto non fece
Bismarck annunciando che la Germania non avrebbe più badato ai vescovi, ridotti a meri prefetti
dai dogmi del 1870 sul primato e l'infallibilità, e dunque non suscita reazioni come quella di Pio IX,
che allora replicò con un'accorata difesa della dignità teologica delle Chiese e dei pastori. Ma le
conseguenze di questa passività ad una banalizzazione universalista della Chiesa di Roma sono
gravi e profonde, come dimostra ad esempio la curiosa afasia della comunione cattolica davanti ad
un segno purissimamente evangelico come la fame dei molti che oggi flagella i continenti poveri.
Per chi voglia vaccinarsi rispetto a questa deriva culturale e spirituale, un lavoro storico come
quello che Silvia Scatena ha dedicato alla conferenza dell'episcopato latinoamericano di Medellín
del 1968, usando il titolo che situava in solenne latino la Chiesa nel tempo — In populo pauperum
—, potrà essere di estremo interesse. Nella città colombiana si adunava in quell'anno topico un
episcopato che Pio XII dal 1955 aveva voluto unire con un organismo di coordinamento delle
conferenze episcopali, il Celam. Ma, attraverso il battesimo conciliare, quello strumento nato per
preservare il continente più cattolico dalla secolarizzazione diventa l'occasione per accogliere e
rispondere alla più semplice e radicale delle domande del Vangelo.
Infatti i vescovi latinoamericani — grazie all'impulso di pastori con una formazione tradizionale e
una cultura politica di destra, come il brasiliano Camara e il cileno Larraín — capiscono che la
situazione di povertà estesa e strutturale del continente non era solo una sfida al modello di
sviluppo, ma metteva in discussione la sostanza dell'annuncio della salvezza cristiana. La risposta
alla domanda del Cristo su di sé — «Voi, chi dite che io sia?» — non può ridursi ad una mera
cornice devozionale: e su questo due generazioni di teologi si interrogano. Sono latinoamericani
venuti a contatto con il marxismo light delle facoltà di filosofia europee, intellettuali di straordinaria
creatività come Ivan Illich, in quel momento prete newyorkese di stanza a Cuernavaca grazie alla
protezione di un conservatore intrepido come il cardinale Spellmann, missionari partiti dall'Europa
sull'onda dell'enciclica Fidei donum di Pio XII: e si interrogano su tutto. Pastorale, catechesi,
liturgia, formazione, giustizia, educazione: il Celam e i suoi uomini guida (i «celàmicos», come
venivano detti) sanno guidare e far nascere istituzioni di pensiero che si misurano con una realtà per
la prima volta guardata nella sua drammatica realtà alla luce della fede.
Un enorme lavoro preparatorio prende così forma in vista dell'assemblea del 1968, che Paolo VI in
persona apre con una seduta che si tiene a Bogotà: il Papa, che nell'enciclica
Populorum progressio ha lasciato aperta una via alla legittimazione della violenza antitirannica
come nella morale tradizionale, cerca sul campo di mettere un freno all'idea che il compito della
Chiesa sia guidare l'insurrezione rivoluzionaria mettendo in luce il carattere anticristiano della
violenza. Ma, al di là di qualche frangia e delle accuse di qualche anonimo vescovo reazionario,
Medellín non si muove in questa direzione: anzi, nel condannare la violenza, condanna anche quella
istituzionalizzata che — pur avendo iniziato il suo corso già col golpe in Brasile — diventerà
l'esperanto politico dei regimi di sicurezza in tutto il «cortile di casa» degli Stati Uniti e il
sanguinoso strumento d'isolamento del castrismo cubano.
In una settimana, attorno alla fine d'agosto del 1968, i vescovi e i teologi fanno una esperienza per
loro decisiva soprattutto sul piano spirituale: come Silvia Scatena spiega con dovizia di dettagli e
intelligenza d'insieme, la convivenza nel grande seminario colombiano sulla collina della città, la
celebrazione in comune, la decisione di lavorare prima in gruppi aperti di conoscenza e solo dopo in
commissioni tematiche, fanno fare una vera esperienza pentecostale di cui risentono tutti. Ne risente
Paolo VI che, caso unico nel quarantennio, autorizza la pubblicazione dei documenti episcopali
senza quel filtro romano solitamente imposto ad atti anche di quell'importanza. Ne risentono gli
osservatori non cattolici che chiedono di fare la comunione alla mensa eucaristica: cosa che il diritto
latino ammette in casi di urgenza e che loro argomentano, scrivendo ai presidenti dell'assemblea,
come una «urgenza di carità», alla quale un diplomatico ferreo come il cardinale Samoré si arrende.
Ne risentono i vescovi che hanno potuto riflettere sul fatto che forse in nessun luogo, ma certo non
in America Latina, il futuro della Chiesa può dipendere da minoranze creative, movimenti
d'importazione o campagne pastorali come quelle dei gesuiti pacelliani: il futuro della Chiesa sono i
poveri, perché è nella loro condizione di marginalità che l'annuncio cristiano si dimostra libero o
succube dal più osceno dei relativismi, quello che ritiene la loro condizione accettabile a Dio.
Guardata con sospetto dalla nuova gestione del Celam del cardinale Lopez Trujllo e additata come
l'incubatrice della teologia della liberazione che sarà condannata negli anni Ottanta buttando via,
insieme al vocabolario marxista, anche la passione evangelica consacrata dal martirio, l'assemblea
di Medellín dice che in ogni tempo, anche quando sembrano periferie d'un impero ecclesiastico su
cui non tramonta il sole, le Chiese locali sono visitate dallo Spirito e preparate a fedeltà grandi ed
esigenti, quelle di cui vive la cattolicità.

Alberto Melloni        Corriere della Sera   12 maggio 2008